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Michelangelo, un campione della fede non un sodomita

Michelangelo, un campione della fede non un sodomita

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Giulia Spoltore - Aleteia Team - pubblicato il 29/10/13

Scavando nella biografia del famoso artista emerge il lato più caritatevole della sua personalità

Molto è stato scritto su Michelangelo Buonarroti (1475-1564): alcuni studi hanno messo in luce la figura di questo scultore straordinario illuminando diversi aspetti del suo carattere. Certamente Michelangelo si presenta come una figura complessa, talvolta controversa, capace di grande passione nel lavoro, tanto quanto nelle amicizie, ma proprio per questo rivelatrice di un’umanità che rassomiglia a quella propria dell’uomo comune.

Sfogliando il carteggio dell’artista e leggendo i suoi versi di carattere petrarchesco emergono aspetti sconosciuti ai più e che mettono alla berlina l’interpretazione di matrice freudiana che dagli anni ‘30 del Novecento addita Michelangelo come omosessuale, sodomita irredento e convinto e perciò assimilato all’icona del genio ribelle incompatibile con la religione. Dall’epistolario emerge invece una quotidiana attenzione per le piccole cose e un sincero desiderio di fare del bene senza trarne alcun merito, nella convinzione che “gli uomini valgono più che e’ denari” in una generosità verso il prossimo che non è una pura filantropia, ma che trova fondamento nell’amore di un Dio che è Padre e che “non ci ha creati per abbandonarci”. Dal desiderio di trasmettere “le piccole cose” senza la pretesa di una compulsiva completezza ci accingiamo a raccontare qualche episodio.

La critica alla Chiesa

Nel 1497 Michelangelo si trova a Roma dove vive gli ultimi anni del papato di Alessandro VI Borgia (1492-1503) con sguardo critico. In una delle sue più note poesie di questi anni riversa tutto il suo personale malcontento per una curia secolarizzata e per un papa monarca e guerriero (Qui si fa elmj di calicj e spade […] E croce e spine son lance e rotelle) ed un religione che “mercanteggia” i benefici del sacrificio di Cristo (E’l sangue di Christo si vend’a g[i]umelle (1),  […] Poscia ch’a Roma gli vendon lla ppelle). Tuttavia l’artista è capace di vedere in questi tempi difficili, laddove la Chiesa è corrotta tanto da vendere il beneficio che Cristo acquistò con il suo sangue, la Grazia che continuamente il Padre dispensa tramite il Figlio (E pur da Christo patientia chade).

Alla fine di questa poesia, l’autore si firma come “Miccelagniolo in Turchia” a ribadire come ormai Roma, a suo dire, sia divenuta terra di infedeli. Tuttavia l’aspra e sincera critica a un papato che è obiettivamente incapace di nutrire un sincero interesse spirituale per il popolo non fa vacillare la fede dell’artista.

La speranza e la carità

Più tardi ritroviamo Michelangelo impegnato nella sua vita personale come uomo attento alle esigenze del prossimo. Quando il nipote Leonardo gli chiede quale nome mettere al suo primogenito maschio, egli indica la sua preferenza nel nome del comune parente “Buonarroto”, senza però dimenticare quale preferenza indichi la madre del nascituro, Cassandra, attenzione non del tutto scontata se si considera la condizione della donna in quegli anni. Alla fine il bimbo si chiamerà Buonarroto con il beneplacito di Cassandra che invierà camicie allo zio acquisito, il quale risponderà a sua volta sempre con doni e saluti calorosi.

A questo si aggiungono le molte “limosine” (elemosine) che l’artista raccomanda al nipote di fare con il suo denaro in particolare alle fanciulle povere, ma sempre in silenzio e nel segreto. Un episodio esemplare della vita personale di Michelangelo è la morte di Francesco detto “Urbino”, suo allievo e collaboratore, noto per aver partecipato all’impresa monumentale della tomba di Giulio II in San Pietro in vincoli. L’Urbino viveva presso il nostro scultore con moglie e figli.

Al collega e amico Giorgio Vasari, il 23 febbraio 1556, Michelangelo scrive a tal proposito: “
Voi sapete come Urbino è morto; di che m’è stato grandissima gratia di Dio, ma con grave mio danno e infinito dolore. La gratia è stata che, dove in vita mi teneva vivo, morendo m’à insegniato [a] morire non con dispiacere, ma con disidero della mo[r]te. Io l’ò tenuto venti sei anni e òllo trovato reallissimo e fedele, e ora che io l’avevo facto richo e che io l’aspectavo bastone e riposo della mia vechiezza, m’è sparito, né m’è rimasto altra speranza che rivederlo im paradiso. E di questo n’à mostr[at]o segnio Idio per la felicissima morte ch’egli à facto e più assai che ‘l morire, gli è incresciuto e’ lasci[a]rmi vivo in questo mondo traditore con tanti affanni; benché la maggior parte di me n’è ita seco, né mi rimane altro c[h]’una infinita miseria”.

La prospettiva con la quale Michelangelo vive la sofferenza della separazione è evidentemente quella cristiana che nel dolore della morte e separazione vede la grazia e la speranza della resurrezione. Ma l’epistolario racconta anche la carità con la quale questo artista opera nella sua vita: non potendo tenere con sé la moglie di Urbino, per non destare scandalo la rimanda presso i suoi parenti, inviando costantemente aiuto materiale ed economico per non abbandonare la famiglia dell’amico e collaboratore che con lui aveva lungamente convissuto, diventando la sua famiglia.

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1) Unità di misura ricavata dalla cavità delle mani unite una a fianco a l’altra per la parte lunga (dal mignolo al polso).

[Il 5 novembre prossimo continuiamo il nostro viaggio alla scoperta di Michelangelo, analizzando come la fede ha influenzato il suo lavoro di artista e letterato]

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