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Giovani, imprese e i conti che non tornano

Lavoro, imprese giovanili

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Chiara Santomiero - Aleteia Team - pubblicato il 29/10/13

Bruni: "La ripresa non sarà immediata. Attenti alla retorica politica"

Se l’Azienda in Italia può vedere in attivo (seppur di poco) il bilancio tra aperture e chiusure di imprese dall’inizio dell’anno lo deve ai giovani sotto i 35 anni e in particolare del sud. Lo affermano i dati presentati  a Genova alla 138ma Assemblea di Unioncamere. Delle quasi 300 mila imprese nate tra gennaio e settembre 2013, oltre 100 mila (il 33,9%) hanno alla guida uno o più giovani con meno di 35 anni di età. La "culla di questa vitalità imprenditoriale" è il Sud, dove ha sede il 38,5% delle nuove imprese giovanili, con quasi 40 mila attività aperte in nove mesi. Commercio, costruzioni e servizi di ristorazione i settori privilegiati dai giovani. Nella grande maggioranza dei casi (il 76,8%) si tratta di imprese individuali, la forma più semplice – e più fragile – per operare sul mercato; solo il 15,6% ha scelto invece la forma della società di capitale.

Dati che devono indurre all’ottimismo? Aleteia ne ha parlato con Luigino Bruni, docente di economia politica all’Università di Milano Bicocca.

Stiamo cominciando a vedere la fine del tunnel della crisi economica?

Bruni: In Italia i media e le istituzioni fanno fatica ad accettare la realtà che ci circonda perchè è traumatica e ne danno una versione ottimistica. Non attribuirei a questo dato un potere taumaturgico: i conti andrebbero fatti alla fine dell’anno per vedere quante di queste imprese riescono a sopravvivere. Si tratta, inoltre, per lo più di partite Iva: il caso classico è quello del giovane che lavora per un’impresa e quando questa non può più tenerlo gli dice di aprire la partita Iva per continuare a lavorare in qualità di consulente. Possiamo guardare alla positività di questi rilievi, come diceva Gramsci, "con l’ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione": cioè possiamo esercitare la volontà per guardare al positivo ma in realtà il sistema Italia è da almeno 12-13 anni che non funziona sul piano economico e industriale. E’ in atto un cambio di paradigma epocale che andrebbe affrontato come si fa in altri Paesi. Non si tratta di un problema iniziato cinque anni fa con la crisi economica e nemmeno ci si può illudere che finisca tra un anno. La ripresa non ci sarà "nel prossimo semestre" come annuncia di volta in volta il politico di turno. Il dato reale è quello che ha segnalato oggi l’Istat: nei cinque anni dal 2007 al 2012 i poveri sono raddoppiati e toccano i 4,8 milioni, di cui quasi la metà al sud. Il resto è retorica politica.

C’è poca speranza quindi nella possibilità dei giovani di cambiare lo stato delle cose?

Bruni: Non sono pessimista sui giovani, ma sugli adulti che non sono all’altezza di questi giovani. La speranza non è autoinganno. Quando l’apertura di partite Iva maschera le non assunzioni non si può parlare di ripresa e non mi sembra che dal sud, dalla Calabria o dalla Sicilia, vengano forti segnali di inversione di rotta. In Toscana mi è capitato di vedere nuove imprese reali: giovani che rimettono a posto un vecchio casolare facendosi aiutare dai risparmi dei parenti e aprono agriturismi che vanno bene perché c’è una enorme domanda di bellezza e di cultura. Bellezza e cultura sono davvero il nostro "petrolio" ma bisognerebbe uscire dalla retorica e trasformarlo in lavoro con leggi adeguate.

A cosa bisogna guardare con "l’ottimismo della volontà"?

Bruni: Tutti i popoli quando attraversano momenti difficili devono attingere alla memoria per trovare qualcosa da cui ripartire. Ho scritto per Avvenire un articolo su Adriano Olivetti, cui Rai1 sta dedicando una fiction. Olivetti esprime una parte bella dell’italianità che funziona e bisognerebbe guardare al suo progetto non per imitarlo, in quanto appartiene a una parabola storica conclusa, ma per
imitare le domande da cui muoveva: si può unire il piccolo e il grande, il locale e il multinazionale, il dialetto e il laboratorio intellettuale, la solidarietà sociale e il profitto? Dovremmo usare memoria per ritrovare il clima del dopoguerra con i laici e i cattolici, Peppone e don Camillo, insieme nella propria diversità per il bene del Paese. Se non siamo capaci di ritrovare una unità civile su cui costruire, questa società imploderà. C’è troppa conflittualità. Occorre prima un bene comune su cui appoggiare la competizione civile ed economica. I nuovi Paesi hanno grandi narrative di futuro basate su un codice simbolico e ideale condiviso, mentre l’Italia l’ha perso almeno dalla fine degli anni ’80. Prima l’Italia e l’Europa si basavano sulla contrapposizione, sostanzialmente, tra collettivismo e capitalismo che non corrispondeva solo a una contrapposizione di partiti ma a due diversi racconti del mondo, a due idealità diverse, ma idealità. Oggi invece le storie collettive che raccontiamo sono di corto respiro, povere di idealità e spiritualità: occorre ritrovare un codice simbolico che vada oltre il profitto sul quale poi fondare un nuovo sviluppo anche economico. Occorre ricominciare a pensare.

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