separateurCreated with Sketch.

Etica medica e Vangelo

whatsappfacebooktwitter-xemailnative
mons. Bruno Forte - pubblicato il 28/10/13
whatsappfacebooktwitter-xemailnative

Può esserci un codice morale normativo e condiviso senza il riferimento a Dio?

1. La riflessione su etica medica e Vangelo non può non partire da una domanda, che dal punto di vista delle conseguenze pratiche appare decisiva: è possibile un’etica senza Trascendenza? Può esserci un codice morale normativo e condiviso senza il riferimento a Dio? Se sì, dove fondare l’esigenza assoluta di fare il bene e di evitare il male, dal momento che non esisterebbe alcunassoluto a cui ancorarla? O il bene si giustifica da sé e si impone con un’evidenza tale da non richiedere ulteriori motivazioni? E il male? È anch’esso così evidente da non supporre alcun imperativo categorico, rispetto a cui porsi come controcanto, negazione ostinata e perfino beffarda del “cosiddetto bene”? Miriadi di voci in secoli di storia hanno risposto a queste domande in una stessa direzione: il bene c’è ed è assoluto; esso si identifica anzi con l’Assoluto stesso, di cui è il volto attraente, lo splendore irradiante, l’esigenza amabile, il dono perfetto. Il male è la resistenza opposta a questo richiamo, l’appassionato permanere nella negazione, la lotta vissuta in nome di una causa falsa, quella della propria libertà eretta come assoluto contro l’Assoluto. Fra il male e il bene la scelta non sarebbe allora che una: con Dio o contro Dio; per l’Assoluto o per le onnivore fauci del nulla. Dall’ethos classico, alla morale delle Dieci Parole, legate al Grande Codice dell’alleanza con il Dio biblico, dal discorso della montagna alle esigenze di giustizia del diritto romano, è quest’impianto di una morale fondata nella Trascendenza che ha retto le sorti della vita personale e collettiva dell’Occidente. La doppia valenza etimologica della parola “etica” mostra come l’ethos come «dimora», accogliente e vivificante nell’offrire orizzonti di senso e di misura ultima, è fondamento dell’ethos come «costume», inteso come comportamento abituale e costante (la “demoratio”, il sitzen, la sede, è fondamento dei costumi, i “mores”, la Sitte).
 

2. È con l’emergere moderno del valore centrale della soggettività che cambiano anche i termini del problema: dall’eteronomia – in cui si vorrebbe costringere tutto il complesso accennato di un’etica dalla fondazione oggettiva ed assoluta – si intende uscire per passare al mondo dell’autonomia, verso i pascoli di una vita morale emancipata, dove il coraggio di esistere autonomamente sia esteso dal conoscitivo “sapere aude!” – “osa sapere!” al decisionistico “libere age!” – “agisci secondo il codice di un’assoluta libertà!”. L’autonomia appare come la sfida irrinunciabile su cui misurare qualsivoglia imperativo morale, per verificare se esso renda più o meno liberi, più o meno umani. Farsi norma a se stessi, essere soggetto e non oggetto del proprio destino, questo appare il progetto da perseguire. L’ebbrezza di questo sogno contagia gli spiriti più diversi, in forme borghesi o rivoluzionarie, di progresso o di conservazione, di freddo calcolo o di passioni emotive. Ben presto, tuttavia, la coscienza dell’impossibilità di un’etica tutta soggettiva si impone alla riflessione dei moderni: che bene sarebbe il bene che fosse tale solo per me? E in nome di quale criterio valido per tutti sarebbe da evitare il male? Non è il confine fra la mia libertà e l’altrui anche il limite di ogni autonomia? E perché se una scelta mi risultasse più vantaggiosa – in termini morali o economici o politici – dovrei seguire un criterio diverso dal semplice profitto e agire in maniera differente? Se poi un comportamento scorretto è diffuso – giustificato dal “tutti lo fanno!” – in nome di quale valore morale dovrei evitarlo, se la scelta è lasciata all’arbitrio personale? È a partire dal crogiuolo di queste domande – quelle di una modernità ferita, insoddisfatta del passato e inquieta di sé – che si profila come tema veramente urgente quello della fondazione dell’etica, in un’epoca in cui il passaggio dal fenomeno al fondamento appare tanto necessario, quanto spesso evaso. Oltre il tramonto delle pretese assolute di una certa modernità e l’incompiutezza del nichilismo della post-modernità debolista, ritorna in tutta la sua forza il bisogno di un’etica della trascendenza, mancando la quale tutto è permesso.
 

3. Quattro tesi potranno aiutare a coglierne il senso. Formulerei la prima così: non c’è etica senza trascendenza. Non può esserci agire morale, lì dove non ci sia l’altro, riconosciuto in tutto lo spessore irriducibile della sua alterità. La fondazione dell’etica è inseparabile da questo riconoscimento: chi afferma se stesso al punto da negare consapevolmente o di fatto ogni altro su cui misurarsi, nell’atto stesso di questa affermazione sazia, idolatrica, nega se stesso come soggetto morale, nega anzi la possibilità stessa di una scelta etica fra bene e male, perché annega ogni differenza nell’oceano asfissiante della propria identità. Nessun uomo è un’isola: e chi pensasse o volesse essere tale, nell’atto stesso di pensarsi o volersi così annullerebbe se stesso come soggetto di relazione, e perciò di vita e di storia reale. La negazione dell’altro è negazione di sé; fare dell’altro lo “straniero morale” è farsi stranieri alla verità di se stessi, è rinnegare la più profonda dignità del proprio essere personale e del proprio destino. Non c’è responsabilità e vita morale senza un movimento di esodo da sé per andare verso l’altro, soprattutto se debole, indifeso e senza voce o capacità di far valere i propri diritti. A questa prima tesi si congiunge direttamente la seconda: non c’è etica senza gratuità e responsabilità. Questa seconda tesi ricorda come ogni movimento di trascendenza ha un carattere gratuito e potenzialmente infinito: uscire da sé in vista di un ritorno, calcolare con l’altro al fine di un proprio interesse è svuotare di ogni valore la scelta morale, facendone semplicemente un commercio o uno scambio tra pari. Qui la lezione di Kant conserva tutta la sua verità: l’imperativo morale o è categorico, e dunque incondizionato, o non è. O il destinarsi ad altri è un atto gratuito e senza condizioni, da null’altro motivato che dall’esigenza  e dall’indigenza dell’altro – “exode de soi sans retour”, direbbe Lévinas – , o non è auto-trascendenza, ma riflesso, proiezione di sé fuori di sé in vista dell’egoistico ritorno a sé. In questo carattere gratuito e potenzialmente infinito della trascendenza morale si coglie come l’anima più profonda di essa sia l’amore, il dare senza calcolo e senza misura per la sola forza irradiante del dono. Il bene è ragione a se stesso!
 

4. La terza tesi dilata la seconda alle forme dell’oggettività sociale e comunitaria: non c’è etica senza solidarietà e giustizia. È nello stesso movimento di auto-trascendenza che si scopre la rete degli altri che circonda l’io come sorgente di un insieme complesso di esigenze etiche contemperarle in modo che il dono compiuto all’uno non sia ferita o chiusura ad altri è coniugare la morale con la giustizia. Regolare in forma collettiva questa rete di esigenze è misurarsi sul bisogno del diritto: non l’astratta oggettività della norma, né il dispotismo del sovrano fonda l’autorità della legge, ma l’urgenza di contemperare le relazioni etiche perché nessuna sia a vantaggio esclusivo di alcuni e a scapito della dignità di altri. L’etica della solidarietà integra qui la sola etica della responsabilità, strappandola al rischio sempre incombente di un suo stemperarsi nell’assolutismo infecondo della sola intenzione. Il bene comune è misura e norma dell’agire individuale, specialmente nel campo dei doveri civili. Infine, quando si riconosce che il movimento di trascendenza verso l’altro e la rete d’altri in cui siamo posti presentano un carattere di esigenza infinita, sull’orizzonte dell’etica si profila un’altra trascendenza, ultima e nascosta, di cui quella prossima e penultima è traccia e rinvio: l’etica rimanda alla Trascendenza libera e sovrana, ultima e assoluta. Nel volto d’altri è l’imperativo categorico dell’amore assoluto che mi raggiunge, e nell’assolutezza dell’urgenza della solidarietà con il più debole è un amore infinitamente indigente che mi chiama. Questa trascendenza assoluta, questo assoluto bisogno d’amore sono la soglia che salda l’etica filosofica all’etica teologica: qui l’etica della responsabilità e l’etica della solidarietà appellano all’etica del dono, alla morale della Grazia. Qui l’amore – sovrana esigenza morale – rimanda all’Amore come eterno evento interpersonale dell’unico Dio. Qui, nelle forme dell’essere l’uno-per-l’altro, è il possibile impossibile amore, gratuitamente donato dall’alto, che viene a narrarsi nel tempo: la carità, che “non avrà mai fine” (1 Cor 13,8). Su di essa si misurerà la verità delle nostre scelte: alla sera della vita saremo giudicati sull’amore!
 

5. Come quest’etica della trascendenza si rapporta al Vangelo? E come da questo rapporto scaturisce una luce particolare per l’etica della professione medica? Il Vangelo è la buona novella della carità di Dio, l'annuncio gioioso e trasformante che Dio «ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16) per noi. Il Padre «non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi» (Rm 8,32). Dalla contemplazione di questo dono supremo la fede della Chiesa nascente non ha tardato a concludere che Dio, il Padre di Gesù, è amore: «Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. In questo si è manifestato l'amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui… Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui» (1 Gv 4,7-9. 16). Se dunque Dio è amore, è soprattutto la carità a farci dimorare in Lui e a manifestarlo al mondo: «Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l'amore di lui è perfetto in noi» (1 Gv 4,12). E questo è dono, che lo Spirito fa al nostro cuore: «L'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). La partecipazione alla carità del Padre accende nei cuori di chi l’accoglie la gratuità dell’amore: libero per la fede, il cristiano è servo per amore. «Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri» (1 Gv 10s). Come l'amore divino è motivato soltanto dalla gioia irradiante di amare, così la carità rifiuta il calcolo e l'interesse ed esige il dono senza riserve, l'esodo da sé senza ritorno: «La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1 Cor 13,4-7). A ogni cristiano è chiesto di vivere la carità come legge nuova del suo agire, caratteristica luminosa e irradiante del suo sapersi avvolto e custodito nell'amore del Padre. Questa legge fondamentale si esprime nella professione medica nel porre al centro di tutto il bene della persona inferma: ogni altro fine che facesse del malato un mero strumento per l’autoaffermazione dell’operatore sanitario o comunque per il suo vantaggio sarebbe infedeltà e caduta di tensione morale.
 

6. Dalla fede la forza. L’accesso al dono dell’amore divino si compie mediante l'incontro col Figlio di Dio, Gesù Cristo, che avviene nella fede. Secondo la lettera agli Ebrei Gesù è «autore e perfezionatore della fede» (Eb 12,2), è colui cioè che ci ha preceduto e ci soccorre nella lotta che è la fede. Nell'unione al Signore Gesù il cristiano partecipa all'accoglienza dell'eterno amore e si consegna nella docilità della fede al Dio vivente: credere è fidarsi dell'Eterno entrato nel tempo, rimettere la propria vita nelle mani dell'Altro, perché sia Lui ad esserne l'unico, vero Signore. Crede chi si lascia far prigioniero dell'invisibile Dio, chi accetta di essere posseduto da Lui nell'ascolto obbediente della sua parola e nella docilità profonda del cuore: l'accettazione della verità rivelata si unisce in chi crede alla libera sottomissione alla grazia e alla fiducia nelle promesse divine, alla fede cioè vissuta nel suo aspetto di incontro personale e di affidamento incondizionato a Dio. L'esistenza di fede è insomma un continuo atto di obbedienza al Padre, una consegna e un abbandono di sé alla Sua verità e al Suo amore, in unione con Gesù Crocifisso e Risorto. Vive nell'obbedienza della fede chi ascolta profondamente il Dio che chiama (ob-audire, da cui “obbedienza”, vuol dire appunto ascoltare ciò che è sotto, oltre, al di là); crede veramente chi non si ferma all'evidenza, ma accetta il paradosso dell'invisibile Amore e si apre alla novità del Suo avvento. Credere, perciò, non è evitare lo scandalo o fuggire il rischio: si crede non nonostante lo scandalo e il rischio, ma proprio sfidati da essi ed in essi. Crede chi confessa l'amore di Dio nonostante l'inevidenza dell'amore, chi spera contro ogni speranza, chi accetta di crocefiggere le proprie attese sulla Croce di Cristo, e non il Cristo sulla croce delle proprie attese. A ogni discepolo di Gesù è chiesto di vivere l'avventura audace della fede, aprendosi nella libertà alla parola di Dio, fidandosi di Lui e avanzando verso la meta della Sua promessa come chi non si sente arrivato, ma è in cerca di una patria ultima e definitiva. Così hanno fatto i testimoni della fede: «Nella fede morirono tutti costoro, pur non avendo conseguito i beni promessi, ma avendoli solo veduti e salutati di lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sopra la terra. Chi dice così, infatti, dimostra di essere alla ricerca di una patria. Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto possibilità di ritornarvi; ora invece essi aspirano a una migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non disdegna di chiamarsi loro Dio: ha preparato infatti per loro una città» (Eb 11,13-16). Così il medico credente affronta ogni giorno le sfide e i rischi della sua professione: coniugando il massimo della professionalità e della preparazione, che gli sia possibile conseguire, alla consegna fiduciosa di sé a Dio, il medico che crede impara a essere umile, a fare come se tutto dipendesse da sé, nella certezza e nella fiducia che tutto dipende dal Dio a cui affidarsi. Testimoniare questa fede a colleghi e pazienti anzitutto con l’eloquenza della vita e poi con la parola affidabile, è compito di ogni medico che viva il suo servizio nella sequela di Gesù.
 

7. Testimoni di speranza. La fede si unisce saldamente alla speranza, impronta viva della presenza dello Spirito Santo nell'esistenza di chi crede: «La speranza poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). Se Cristo è in noi la speranza della gloria (cf. Col 1,27; 1 Tm 1,1), il Dio della speranza ci fa abbondare in essa grazie al dono dello Spirito: «Il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e pace nella fede, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo» (Rm 15,13). La speranza, che lo Spirito suscita in chi crede, non è la semplice attesa in cui si proiettano i desideri del nostro cuore: donata dall'alto, essa è piuttosto anticipazione, futuro di Dio operante già ora nel cuore della storia. Per questo la speranza teologale non annulla il volto umano della speranza: il desiderio e l'attesa di un bene futuro arduo, ma possibile a conseguirsi, sono anzi resi più vivi dalla partecipazione alla vita divina. Tutto l'uomo vive nella speranza delle cose venienti e nuove di Dio: il futuro dell'Eterno entrato nel tempo viene a prendere corpo nel cammino del cuore, che si apre nella libertà al dono del Padre. L'esperienza, che nasce da questo incontro col Dio della speranza, si esprime soprattutto nello stile della sobrietà evangelica, che non è la mancanza alienante della miseria, che va combattuta da tutti e vinta, ma la condizione dei «poveri del Signore» che ripongono totalmente in Dio la loro fiducia e la loro certezza. Speranza significa apertura alle sorprese dell'Eterno, e perciò rinuncia a gestire da soli la propria vita: è vivere il futuro progettato ed edificato a partire dall'uomo nella prospettiva del primato assoluto di Dio, che raggiunge e trasforma nella libertà tutto ciò che esiste. Vivere nella speranza teologale significa allora essere aperti all'Eterno, liberi da sé per appartenere a Lui, disponibili a lasciarsi raggiungere e turbare dalla sua venuta, pronti ad abbandonare ogni sicurezza raggiunta per accettare di stabilirsi nella fedeltà sempre sorprendente di Dio. Segno profetico della possibilità di vivere questa scelta è nella vita del medico credente il distacco dal denaro e la testimonianza di disinteresse e di generosità specialmente verso i poveri e i deboli. Al tempo stesso è nell’orizzonte della speranza teologale da offrire sempre al malato che va risolto di caso in caso il problema delicato e complesso dell’informazione del paziente: senza mai dire menzogne, il medico credente ha il dovere di illuminare il paziente sulla sua reale condizione senza mai compromettere la speranza che sempre va riposto in Dio e nelle Sue infinite possibilità. Un medico che viva la sua professione con speranza teologale sarà libero dalla seduzione della ricchezza, semplice e sobrio nel suo stile di vita, testimone di verità nella carità che tutto salva. Amico dei poveri e dei sofferenti, vero discepolo del Medico celeste, Gesù…

[FONTE: Arcidiocesi di Chieti-Vasto]