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Leggere, scrivere e far di conto: serve ancora per gestire la vita quotidiana?

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Chiara Santomiero - Aleteia Team - pubblicato il 23/10/13

L'indagine Sfol-Piaac colloca gli italiani agli ultimi posti nella media dei Paesi Ocse per competenze alfabetiche e matematiche

Gli italiani sono all’ultimo posto della graduatoria nelle competenze alfabetiche (literacy) e al penultimo nelle competenze matematiche (numeracy): lo dice l'indagine Sfol-Piaac (Programme for the International Assessment of Adult Competencies), svolta nel periodo 2011-2012, al fine di analizzare il livello di competenze fondamentali della popolazione tra i 16 e i 65 anni. L’indagine, realizzata in 24 paesi, è stata promossa dall’Ocse e realizzata in Italia dall’Isfol su incarico del Ministero del Lavoro. Non si tratta di dati incoraggianti: mentre la literacy è fondamentale, come sottolinea l'indagine, per la crescita individuale, la partecipazione economica e l’inclusione sociale la numeracy è fondamentale per affrontare e gestire problemi di natura matematica nelle diverse situazioni della vita adulta.

Le competenze analizzate dall’indagine sono espresse in punteggi da 0 a 500. Nelle competenze alfabetiche il punteggio medio degli adulti italiani è pari a 250, contro una media Ocse di 273. Nelle competenze matematiche la media italiana è pari a 247 rispetto a 269 di quella Ocse. I punteggi sono riconducibili a 6 diversi livelli di competenze e il livello 3 è considerato il minimo indispensabile per “vivere e lavorare nel XXI secolo”. In riferimento alle competenze alfabetiche il 29,8% degli adulti italiani si colloca al livello 3 o superiore, il 42,3% al livello 2 e il 27,9% non supera il livello 1. Quanto alle competenze matematiche il 28,9% è al livello 3 o superiore, il 39% a livello 2 e il 31,9% al livello 1 o inferiore.

Aleteia ha letto questi risultati con donFilippo Morlacchi, direttore dell'Ufficio pastorale scolastica e IRC del Vicariato di Roma.

Cosa emerge dalla lettura di questi dati?

Morlacchi: Essere il fanalino di coda in Europa non è una sorpresa; anzi rispetto all'ultima indagine del 2007 c'è stato un piccolo passaggio in positivo e l'Isfol ha sottolineato come sia diminuita la percentuale di popolazione che si colloca nei livelli più bassi di istruzione. Inoltre si è ridotta la forbice tra giovani e anziani e tra maschi e femmine. Tuttavia la novità di questo rapporto – il terzo dell'Ocse negli ultimi 20 anni – è che le conoscenze alfabetiche del campione non vengono analizzate solo relativamente alla capacità di lettura e comprensione di un testo, quanto in rapporto alla capacità di essere utili per la vita. Ciò che emerge rispetto agli italiani è che la formazione scolastica – anche di persone che hanno 30-40 anni di differenza tra di loro – non abilita ad entrare attivamente nel mondo del lavoro o nella vita sociale. C'è quindi uno scollamento tra preparazione scolastica o universitaria e mondo del lavoro. Invece l'Europa lavora da molto sulle competenze cioè sulla capacità di coniugare conoscenze teoriche e abilità pratiche per muoversi nella vita di tutti i giorni.

Cosa racchiude il concetto di competenze?

Morlacchi: Competenza è non solo sapere le cose ma sapere cosa farmene per la mia vita. Normalmente oggi la scuola è chiusa nell'autoreferenzialità: studio per andare bene a scuola, non per vivere più consapevolmente e costruire un futuro lavorativo. Una cosa, infatti, è tradurre bene dal greco Pindaro per prendere otto e un'altra è godere della bellezza di Pindaro per l'arricchimento personale, così come è diverso studiare la geometria per passare un esame e tenerla bene a mente perchè mi sarà utile anche per progettare l'arredamento della mia casa. Gli orientamenti europei sono chiari: la scuola deve portare alla consapevolezza di sé; viene sottolineata di meno la dimensione di formazione orientata al lavoro e di più il concetto di "officina di senso". Dai dati Ocse emerge che le persone magari studiano anche di più ma non sanno cosa farsene. La "literacy" e la "numeracy" dell'Ocse corrispondono al "leggere, scrivere e far di conto" di un tempo, ma mentre 50-100 anni fa era chiaro a cosa servisse – tra l'altro ad evitare di essere facilmente raggirati da chi sembrava saperne di più – oggi è necessario muoversi consapevolmente in un mondo molto più complesso. I dati invece ci dicono che c'è un gap preoccupante tra ciò che dà la scuola e ciò che ti serve per la vita.

Le scuole degli altri Paesi funzionano meglio di quella italiana?

Morlacchi: In parte sì, gli insegnanti sono pagati meglio e in genere c'è un prestigio sociale maggiore legato all'insegnamento. Nel nostro Paese, invece, c'è da anni una completa disistima del processo educativo. L'emergenza educativa sottolineata da Benedetto XVI nasce dal fatto che noi adulti non riusciamo a trasmettere una visione del mondo in maniera globale e sistematica mentre i giovani si accostano al sapere come a un self-service: prendono ciò che interessa. Il maestro non è più un riferimento per loro. Non c'è solo una crisi della scuola ma dell'educazione in generale ed è ciò che emerge anche da queste ricerche. Prima la scuola era un potente ascensore sociale e anche il figlio del contadino attraverso l'istruzione poteva cambiare la sua posizione. Oggi mentre si mettono in campo tante iniziative per una scuola inclusiva, la complessità del mondo dei ragazzi è talmente alta che si riesce a realizzare di meno: l'attenzione è maggiore ma meno veloce dell'aumento della complessità. Così la scuola non riesce molto a promuovere situazioni di marginalità esistenziale e culturale.

I dati affermano, tra l'altro, che rispetto alla media Ocse il deficit del nostro paese è più accentuato per i livelli di istruzione più avanzati…

Morlacchi: E' evidente che in Italia l'Università non riesce a fare questo passaggio: è necessario orientare al percorso migliore per le proprie capacità prevedendo a quali sbocchi lavorativi potrà portare. Non sono moltissimi oggi coloro i quali, avendo fatto un percorso formativo, vengono impiegati nel settore per il quale hanno studiato. L'Università non accompagna al lavoro e nemmeno alla vita e questo si traduce in un colossale spreco di competenze. Oggi la necessità di studiare sempre va oltre l'aggiornamento richiesto ai professionisti: è richiesta una flessibilità maggiore, la capacità di cambiare lavoro, ma la flessibilità non si impara con un percorso accademico: è proprio ciò cui abilita la vita.

Quali sono le possibili soluzioni? Potrebbe aiutare l'innalzamento dell'obbligo scolastico?

Morlacchi: Occorrono investimenti massicci nel mondo dell'educazione. Oggi che c'è scarsità di risorse, all'istruzione vengono dati sempre meno soldi. Ma uno Stato senza istruzione non ha futuro. Bisogna anche immettere nella scuola degli insegnanti motivati per questo lavoro ma è chiaro che se la retribuzione è modesta, pochi la sceglieranno come prima opzione e non come ripiego. L'innalzamento del diritto-dovere allo studio – che nasce per tutelare dallo sfruttamento del lavoro minorile – è positivo, ma non deve trasformarsi come avviene per molti quando si iscrivono all'Università, in un parcheggio per prolungare l'infanzia e rimandare l'impatto con il mondo del lavoro. Così come il ragazzo di 16 anni che decide con molta determinazione di andare a lavorare, deve trovare occasioni per studiare ancora e anche laurearsi mentre lavora. L'istruzione deve abilitarti ad entrare nel mondo del lavoro: se poi sul mondo del lavoro occorre intervenire perchè diventi più accogliente per i giovani, questa è un'altra storia…

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