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Chi sono i fratelli e le sorelle di Gesù?

Gesù Cristo, i fratelli e le sorelle

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Dimensione Speranza - pubblicato il 10/10/13

Una nuova solidarietà, basata sulla Parola del Regno, è più forte dei legami di sangue

di Daniel Marguerat

I quadri e le icone della Natività ci offrono il ritratto parlante della famiglia nucleare: il padre, la madre, il figlio. A questo sacro triangolo chi oserebbe aggiungere una sfilza di piccoli fratelli e sorelle? Peraltro i Vangeli quando parlano della famiglia di Gesù citano una lista di almeno sei figli. Di questa numerosa famiglia Gesù fu forse il maggiore, ma chi sono questi fratelli e sorelle nell’ombra? Inchiesta su un dossier nascosto.

«Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di loses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?» (Mc 6,3). Questo interrogativo sale dall’assemblea della sinagoga di Nazaret, in occasione della prima predicazione che Gesù tiene nella città della sua infanzia. L’indicazione è preziosa. Essa ci dà la lista di almeno sei fratelli e sorelle di Gesù: quattro fratelli e (almeno) due sorelle, di cui il patriarcalismo dell’ epoca non ha mantenuto i nomi. Questi quattro fratelli hanno tutti nomi di patriarchi -segno, forse, di una famiglia pia in cui si coltiva la tradizione di Israele quando si assegna il nome.

Gesù può avere dei fratelli?

Ma Gesù può avere dei fratelli? Nel Il secolo, la cristianità è divisa a questo proposito. Il Protoevangelo di Giacomo (leggere a p. 24), un racconto apocrifo dedicato alla vita di Maria e all’ infanzia di Gesù, difende la verginità perpetua della madre di Gesù; in compenso cita dei figli di Giuseppe nati da un precedente matrimonio, il che li renderebbe fratellastri e sorellastre di Gesù. Epifanio (315-402) renderà popolare questa idea nel suo Panarion e sarà molto citato nell’ Antichità. Ritorniamo al Il secolo. Egesippo – citato da Eusebio di Cesarea – parla di Giuda «fratello di sangue del Signore» (Storia Ecclesiastica 3, 20,1). Tertulliano, verso il 200, difende con vigore l’umanità di Gesù e afferma che ha avuto una vera madre e dei veri fratelli ( Contro Marcione 4,19). Le opinioni sono dunque contrastanti.

È chiaro che cosa divide gli spiriti: come il «figlio unico del Padre», il figlio unigenito, potrebbe appartenere ad una famiglia numerosa? L’affermazione teologica crea un dissenso e problematizza la constatazione storica di Marco.

L’attacco più forte contro l’idea di una fraternità del Signore è venuta da Girolamo, il traduttore della Vulgata (IV secolo).

È il primo Padre della Chiesa ad aver sostenuto che i fratelli di Gesù erano in realtà dei cugini, e che Maria, come pure Giuseppe, rimasero vergini. Al suo tempo, la nozione di verginità perpetua di Maria non si era ancora diffusa. Alla sera della sua vita, Girolamo si dedica al problema nel suo trattato Contro Elvidio. Lui, che è un raffinato linguista ed un ebraista, nota che in ebraico la parola fratello ( ‘ah ) può indicare tanto un fratello quanto un nipote o un cugino. Così Lot, nipote di Abramo, è anche detto «fratello» in Gn 14,14.16. AlI’ interno della parentela, inoltre, l’ ebraico non distingue con precisione i gradi. Passando dall’ebraico al greco, dice Girolamo, la traduzione dei Settanta ha sistematicamente reso ‘ah con adelphos, che significa senza dubbio fratello. Di qui l’uso, nel Nuovo Testamento, per i fratelli di Gesù che sono in realtà suoi cugini. L’influsso della posizione di Girolamo fu enorme e di lunga durata.

Socializzazione di Gesù

È possibile aggiungervi un argomento storico che Girolamo non ha utilizzato. La famiglia antica non potrebbe, è ben evidente, ridursi al modello della moderna famiglia nucleare. Nella Palestina del I secolo, e, più in generale, nell’ Antichità, l’individuo non si autocomprende come un essere autonomo e socialmente indipendente. La comunità, il villaggio, il clan costituiscono un tessuto sociale di protezione che fornisce all’ individuo la sua legittimità. Dalla sua città di Nazaret, che contava (si pensa) circa 1600 abitanti, Gesù riceveva dunque un quadro sociale di riconoscimento e di sicurezza. In conclusione, con certezza
Gesù non è stato socializzato in un bozzolo, ma in una famiglia all’ antica, in seno ad un clan. È questo d’altronde il motivo per cui lo sbalordimento di fronte al comportamento nella sinagoga di Nazaret è così sottolineato: Gesù esce dal ruolo che è riconosciuto a lui e alla sua famiglia. Egli trasgredisce l’ accordo che regola il potere all’interno del gruppo. Gesù concluderà con l’adagio: «Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua» (M c 6,4). Con questo proverbio, egli si affranca dal controllo sociale e reclama la sua singolarità.

Un significato chiaro

L’argomentazione di Contro Elvidio potrebbe dunque poggiarsi sulla sociologia dei gruppi chiusi, postulando che vi sia intesa una fraternità in senso ampio. Purtroppo, l’ argomento non regge. La dimostrazione di Girolamo è molto, molto fragile. Cito l’ esegeta cattolico americano John P. Meier: «Non è affatto vero che adelphos è usato regolarmente nell’Antico Testamento greco per designare il cugino» (A marginai Jew, I, 1991, p. 325). Questo esegeta aggiunge che nella Bibbia greca dei Settanta, un solo testo può essere citato a sostegno dell’affermazione di Girolamo (1 Cr 23,22)! Si può aggiungere che, in greco, mai adelphos (fratello) è applicato ad un campo di significato che arrivi sino a cugino. L’ adelphos è un fratello. di sangue o di diritto.

Altre voci si sono alzate per suggerire che il termine fratello era usato per designare la fraternità religiosa, il fratello nella fede (M t 5,23 ne è un buon esempio). E vero che i farisei (membri di uno dei principali partiti del giudaismo antico all’epoca del secondo Tempio) si servivano largamente di questo termine nel quadro delle loro confraternite. Si tratterebbe in quel caso di un senso figurato, facilmente percepibile alla lettura. Chi immagina che quando l’apostolo Paolo parla di «Giacomo fratello del Signore», incontrato a Gerusalemme in occasione del suo passaggio dopo la conversione (GaI 1,19), designi un semplice «fratello» della comunità? Si conosce inoltre l’importanza che ha assunto questo fratello, Giacomo, che At 15 designa come il capo della Chiesa di Gerusalemme nel momento in cui Paolo viene a difendervi la validità della sua missione contro degli attacchi giudeo-cristiani. Quando l’ autore degli Atti parla dei discepoli riuniti a Gerusalemme dopo l’ Ascensione, egli traccia il quadro della primissima comunità formata dagli undici discepoli e da «Maria la madre di Gesù, con i fratelli di Gesù» (At 1,14). Il senso del testo è limpido: la madre del Signore e i suoi fratelli hanno fatto parte e hanno sostenuto un ruolo particolare nella prima cerchia dei suoi adepti dopo la sua scomparsa.

Essi non credevano in lui

Luca ha conservato la memoria della partecipazione della famiglia di Gesù a questo gruppo degli esordi. La partecipazione è sorprendente. Se i Vangeli infatti citano più frequentemente la famiglia di Gesù, questa appare sotto una luce poco piacevole. «Entrò in una casa e si radunò di nuovo attorno a lui molta folla, al punto che non potevano neppure prendere cibo. Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; poiché dicevano: ” È fuori di se"&raquo
; (M c 3, 20 – 21). Questo piccolo episodio ha in se l’argomento d’autenticità più forte: quello che è detto «imbarazzo ecclesiastico». La storia ha imbarazzato i primi cristiani, che si preoccupavano piuttosto di magnificare la memoria del loro Signore. Però, l’hanno conservata. Essa ci dice qualche cosa sulla tensione tra la singolarità di Gesù e il controllo sociale esercitato nei suoi confronti dai suoi parenti. Ma il testo è ambiguo. Bisogna intendere «è fuori di se» a partire da esperienze carismatiche legate alla pratica dell’ esorcismo? O bisogna banalizzarle nel senso della nostra espressione «ha perso la testa, è matto» ? In ogni caso, la famiglia di Gesù reagisce al suo successo popolare e cerca di recuperarlo (prima che sia troppo tardi?). Segno discreto, ma chiaro, che la vocazione di Gesù è per loro qualche cosa di estraneo.

Il Vangelo di Giovanni va nella medesima direzione, cosa notevole, se si tiene conto della rarità delle sue indicazioni biografiche sul Nazareno. Al capitolo 7, scrive che «i suoi stessi fratelli non credevano in lui» (7,5). L’ evangelista ha mantenuto anche lui il ricordo delle tensioni tra la famiglia galilea del Nazareno e la sua vocazione verso tutto Israele. Nella lettura del Vangelo, questo aneddoto prende il valore di un simbolo, riecheggiando le tensioni tra una corrente teologica gerosolimitana, forte della tradizione dei fratelli di Gesù, e la tradizione giovannea. Si sa che la Chiesa di Gerusalemme, dominata dalla figura di Giacomo, ha esercitato sino all’ esecuzione di questi nel 62 un’ autorità che non era gradita a tutti. Si sa che Paolo è stato in grande frizione con essa (Gal 2,5-9). Ancora una volta, è una traccia dell’ importanza egemonica che la famiglia di Gesù, dopo la sua morte, ha preso sulla cristianità di Gerusalemme.

 Ritorniamo a quando Gesù era vivo: che cosa diceva dei suoi?

 Una provocazione

«Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, lo mandarono a chiamare. Tutto attorno era seduta la folla e gli dissero: "Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono fuori e ti cercano". Ma egli rispose loro: "Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?", Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: "Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre"» (M c 3, 31-35). Non è il «Famiglia, vi odio!» di André Gide, ma Gesù in questo modo introduce una severa relativizzazione dei legami di sangue. La parola del Regno di Dio, e i segni di guarigione e di conversione che la circondano, creano una nuova solidarietà che Gesù mette alla stregua del legame familiare.

Ho già detto che l’appartenenza ad una famiglia-clan costituiva, nelle società antiche, il fattore fondamentale di identità e di sicurezza; essa imponeva all’individuo le sue relazioni, le sue lealtà e i suoi doveri. L’attacco dunque è rude, quando l’uomo di Nazaret dichiara che «se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» (Lc 14,26). Gesù non liquida in questo modo dei problemi personali con la propria famiglia e non intende distruggere l’istituzione familiare. La sua dichiarazione, volutamente provocatoria, mira a mostrare che cosa conta di fronte al Regno di Dio: alla persona è offerta una nuova identità. Colui che, perdonato da Dio, riceve la grazia, è accolto indipendentemente dalle sue appartenenze sociali o affettive. Egli partecipa a nuovi legami, dove il rapporto con l’altro non è più dettato dal clan, dal villaggio o dalla nazione.

Paolo di Tarso dirà la stessa cosa in uno slogan altrettanto azzeccato: «Non c’ è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna; perchè tutti siete uno in Gesù Cristo» (GaI 3,28). L’ apostolo indica qui l’ambizione delle nuove comunità che egli fonda, nelle quali l’individuo è ricevuto e accolto senza riguardo alla sua cultura, alla sua appartenenza sociale o al suo status. Il messaggio è potentemente liberatorio, poiché afferma che ormai l’identità della persona non è più dettata dal suo capitale sociale di nascita.

È il motivo per cui la Chiesa ha voluto, sin dalle origini, costituire per i suoi aderenti la familia Dei. Se ne trova traccia già in Mc 10, 29-30: coloro che hanno lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli riceveranno «già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi [. ..]». Si conferma qui che Gesù non è un utopista che sogna di isolare la persona da ogni tessuto affettivo e sociale; l’offerta del Regno può avere come conseguenza nuove solidarietà, con la rottura dei legami tradizionali.

Gesù scelse il celibato?

Rimane un problema: Gesù stesso non era sposato. Perchè?

Più esattamente: dal silenzio dei Vangeli, che non gli attribuiscono moglie, si deduce che egli non ha fondato una famiglia. Il fatto è sorprendente, perchè la regola voleva che i rabbini dessero l’ esempio con una numerosa discendenza. Di Eliezer ben Hirkanos, un rabbi tannaita vissuto intorno al 100, si riferisce la parola terribile: «Chi rifiuta di procreare è simile a un omicida». Il principio è che, attraverso i figli, un uomo lascia la sua traccia nella storia; di qui il dramma della donna sterile, che può essere ripudiata perchè non dà alcun avvenire al marito. Ma anche nel giudaismo antico, non tutti sono di questo parere. Lo storico Giuseppe Flavio parla di comunità degli esseni, al tempo di Gesù, in cui alcuni si sposano ed altri no (Guerra giudaica, 2,160). Filone di Alessandria parla dei Terapeuti, dediti alla vita contemplativa, che praticano la continenza sessuale (De vita contemplativa 18). Più vicino a Gesù: Giovanni il Battista viveva nel deserto senza moglie ne figli. A quanto ci dice, l’ apostolo Paolo ha fatto la stessa scelta (1 Cor 7,8).

Gesù dunque non è l’unico della sua epoca che trasgredisce la regola della paternità.

È perchè si attendeva molto presto il grande sconvolgimento della storia e la venuta di Dio? È per rimandare completamente a Dio Padre? È per concretare con la sua cerchia di discepoli la nuova familia Dei? L’enigma permane. La discendenza spirituale di Gesù, quella ha invaso il mondo e la storia.

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