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Don Pigi Bernareggi, da 50 anni prete di favela in Brasile

Da 50 anni prete nelle favela

@Terre D'America

Alver Metalli - Terre D'America - pubblicato il 27/09/13

“Con un Papa così sarà più facile a tutti imparare da lui e cambiare”

Prete di favela, come i villeros argentini, e come loro minacciato di morte per difendere i più deboli dalle prepotenze dei forti; come i colleghi di Buenos Aires anche lui si è messo alla testa di una umanità di poveri che lottano con le necessità elementari della vita… don Pigi Bernareggi, italiano di Milano, rampollo di una famiglia benestante, a Belo Horizonte, in Brasile, ci è arrivato nel 1964 sulla spinta dell’incontro con don Giussani, e non se n’è più andato, eccetto per un paio d’anni, per curarsi da un tumore che gli ha risparmiato la vita. “Le favelas sono un fiume di umanità che si riversa sulla città ogni mattina con il sole dei suoi lavoratori” dice, alla pari dei compagni di vocazione del paese che ha dato i natali al Papa regnante. Un Papa che gli “arriva” forte.

Cosa ti colpisce di più, tu, brasiliano di adozione, in questo Papa argentino?

Prima di tutto, una precisazione: quando nel lontano febbraio del 1964 con altri due amici di Gioventù Studentesca siamo entrati nel Seminario di Belo Horizonte per iniziale teologia, il nostro Rettore, padre Helio Angelo Raso, figlio di italiani, ci fece questa raccomandazione: “A partire da oggi, dimenticate che siete italiani, ma non immaginativi mai di essere diventati brasiliani…”. É una direttiva che mi ha accompagnato sempre durante questi 50 anni, e che oggi vale più che mai, preservandomi da ogni supponenza e pretesa sia di “colonialismo culturale” che di “terzomondismo” fatuo.

E come Pigi Bernareggi cosa rispondi?

Seguendo alla TV la sua visita in Brasile per la Giornata Mondiale della Gioventù di Rio de Janeiro, ho notato che il Papa quando era immerso nella folla aveva un sembiante di papà per tutti, suscitando enorme entusiasmo nella gente. Ma quando era con i vescovi, i religiosi, i responsabili – o durante le trasferte in macchina per prendere il “papamobile” -, mostrava un’aria non dico tesa, ma pensierosa e sospesa. Per rispondere alla tua domanda: quel che più mi colpisce è proprio questa alternanza di gioia e di preoccupazione, o “gioia nella tribolazione”. Non si tratta certamente – come certi media volevano far credere – di uno “semplice come colomba”, ma più evangelicamente “semplice come colomba, e astuto come serpente”…

E perché ti colpisce questa alternanza di sembiante?

Perché coglie sul vivo, anche nel mio piccolo, la mia esperienza di Chiesa nel mondo a cui sono stato radicalmente introdotto da don Giussani ai tempi di GS al Berchet e alla Cattolica di Milano, e poi qui in Brasile dai grandi maestri che ho avuto la fortuna, meglio, la grazia, di seguire in seminario durante la Teologia; e infine nelle multiple sfaccettature di tutto il mio povero lavoro pastorale in periferia, centro, favelas, senza-casa, ecc. La Chiesa è sempre in costruzione, anche quando sembra ferma nel tempo o nello spazio. Anzi, quando sembra più ferma, è perché il lavoro sta avvenendo “dentro”. Citava sempre don Giussani: “omnis gloria filiae regis ab intus”… Tutto lo splendore della figlia del Re viene dal di dentro! Semplicità ed astuzia sono i componenti indispensabili di questa costruzione – come cemento ed acqua nei cantieri edili. Il lavoro pastorale è sempre il risultato affascinante della nostra partecipazione all’insondabile mistero del Dio fattosi astutamente carne.

Missionario, prete, tu sei nella “periferia” da oltre cinquant’anni. Che effetto ti fa un Papa che esorta la Chiesa ad uscire, ad andare incontro alla gente, a camminare con loro, a non avere “paura di entrare nella notte degli uomini”, come ha detto proprio in Brasile…

Questa “direttiva” di Papa Francisco (non un semplice “consiglio”) mi ricorda istintivamente Don Giussani in Gioventù Studentesca, che diceva a noi ragazzini del liceo, ignari di quasi tutto ciò che si riferisse alla Chiesa, perché di tradizione quasi sempre borghese indifferente alla religione, di andare ai compagni di classe, di immergerci nella problematica dell’”oscurantismo borghese anticlericale” dominante nella scuola pubblica italiana, di “condividere” la situazione della gente abbandonata nella nebbia della Bassa Milanese, ed ovunque portare l’esperienza nuova del vivere la comunità cristiana nell’ambiente. Ci mandava in giro per tutta la Lombardia, e poi tutt’Italia, a lanciare lo spunto iniziale della comunità nell’ambiente, senza affliggerci per l’opposizione sistematica della mentalità “parrocchialistica” di alcuni monsignori di turno…

Le parole del Papa mi fanno valorizzare ancor di più l’iniziativa del nostro nuovo Vescovo qui a Belo Horizonte dom Walmar Oliveira de Azevedo. Appena è arrivato qui, per prima cosa ha proposto una “pastorale delle favelas” totalmente missionaria e non paternalista. Lui non fa’ una dichiarazione o un discorso alla gente senza concludere: “…specialmente ai più abbandonati ed esclusi”. L’immagine della notte, poi, è perfetta. Mi ricorda la frase detta sul letto di morte da non so quale fondatore dell’illuminismo tedesco (aufklärung): “mehr Licht!”, “più luce…”. E’ un grido che mi sembra di vedere oggi, alla fine del percorso di tutta questa cultura illuminista in cui viviamo immersi. Ed in questo sento una estrema vicinanza tra i due papi.

… poi, però, papa Francesco non vuole una Chiesa ridotta a ONG. Come la intendi questa cosa?

“Non di solo pane vive l’uomo”, ma della testimonianza di vita che gli è data: di questo ha più bisogno l’umanità. Il richiamo di Papa Francesco ad andare alle periferie dell’umanità è la traduzione pastorale del 2° capitolo della lettera di S. Paolo ai Filippesi, 5-11: la missione della Chiesa è dar continuità all’immersione incarnatrice del Verbo di Dio, con tutto ciò che ne consegue esistenzialmente. Per la Chiesa, ciò che dice S. Paolo non è un “optional” tra i molti! Da qui appare chiaramente l’abissale differenza con qualsiasi ONG. Il “terzomondismo” assistenzialista, la beneficenza non rappresentano per sé il cristianesimo, anche se ne possono essere grandemente influenzati e redenti, come qualsiasi altro aspetto dell’attività umana. Mi ricordo ancora una volta l’esperienza di quando ero in GS. La prima volta che Giussani ci riunì per fare un consuntivo delle visite alla Bassa Milanese, dopo avere ascoltato vari interventi che sottolineavano l’aspetto assistenziale, colse un accenno apparso in un intervento diverso, che invece esprimeva la prossimità e la convivenza con la gente, per definire il condividere come il vero scopo dell’iniziativa. Educarci al condividere non qualcosa, ma al condividere sé! Ecco l’abissale differenza…

In Brasile in uno dei discorsi più belli, quello ai vescovi, ha anche parlato dei lontani e di chi se n’è andato, quindi di “una Chiesa capace di decifrare la notte contenuta nella fuga di tanti fratelli e sorelle”, capace di rendersi conto perciò “di come le ragioni per le quali c’è gente che si allontana contengono già in se stesse anche le ragioni per un possibile ritorno”. Cosa possono voler dire queste parole, qui, da te?

Cercando appunto di decifrare le ragioni (o la ragione?) della fuga, che in sé stesse portano già anche la ragione del possibile ritorno, mi sembra di poter contribuire alla ricerca con la seguente considerazione: che cosa ricerca l’uomo? Dice Dante Alighieri: “Ciascun confusamente un bene apprende nel qual si queti l’animo, e disira; per che di giugner lui ciascun contende”. “Lui”, è la persona di Cristo, alla cui immagine e somiglianza tutti siamo fatti nonostante le conseguenze del peccato originale che ci portiamo dietro nella “confusione” della vita. Ma Cristo, oggi, dove Lo si incontra esistenzialmente, cioè in una forma umana reale – non solamente accademica, sentimentale, mediatica, virtuale? Nella vissuta esperienza concreta della comunità cristiana a noi vicina ed a misura umana.

Perché la gente se ne va’ alla ricerca di nuove avventure? Per la mancanza di quell’esperienza nella fattispecie concreta della Chiesa che incontra sul suo cammino: ad esempio, quando la chiesa è burocratica, soffocante, formalista, moralista, chiesa-ghetto, e chi più ne ha più ne metta… Queste “ragioni”, in fondo convergono tutte verso un’unica ragione: la mancanza di un incontro reale con la persona concreta di Cristo nella vita della comunità cristiana. Che suggerisce -anzi esige a gran voce!- esattamente quell’incontro. É assolutamente semplice; ma come sempre, il semplice è il vero problema dell’uomo ferito dal peccato originale, cioè confuso e complicato, avvolto nelle illusioni ottiche del “padre della menzogna”.

Adoperiamoci, perciò, a ricostruire la comunità fraterna “in Cristo” tra la gente, ciascuno nel suo ambiente, in tutti gli ambienti, a perdita d’occhio, a macchia d’olio, senza frontiere, senza paura. La colpa è di noi cristiani anchilosati, ammuffiti, obesi, abbuffati, “empachados” diceva Papa Francesco ai giovani di Rio de Janeiro!

Un collega vaticanista, cercando di spiegare l’originalità di questo Papa l’ha definito “Il Papa dei lontani”, che si preoccupa delle novantanove pecorelle che hanno lasciato il recinto. Ti sembra una buona definizione?

Definizione sorprendente nella sua semplicità e nel suo realismo storico: effettivamente, noi oggi viviamo in un’epoca non più “pagana” come quella di Gesù e dei primi cristiani, ma in un’epoca “scristianizzata”, frutto maturo di una stagione di 800 anni di cultura fatta per distruggere radicalmente il cristianesimo. Il “pagano” cerca, coscientemente o incoscientemente, Gesù; la cultura moderna e post-moderna lo combatte ed estromette. Oggi, la separazione tra le pecorelle che sono “dentro” e quelle che sono “fuori” passa letteralmente all’interno della personalità del cristiano, scatenando le illusioni ottiche e prospettiche messe in scena dall’”antico Menzognero”. Ciò rende difficile l’impresa di schiarire le cose. A meno che l’incontro con chi è personalmente affascinato da Cristo, ed il conseguente stabilirsi del rapporto di comunità reale nella Sua persona all’interno dell’ambiente di vita in cui viviamo, non spazzi via e non faccia svanire come neve al sole ogni equivoco ed ambiguità. La “regola” di questo processo è semplice e infallibile: “Non lasciatevi conformare alle strutture di questo mondo, ma trasformatevi mediante il rinnovamento della vostra mente…” (Romani 12).

Questo scorcio di pontificato lascia già capire che ci troviamo davanti ad un Papa riformatore, come ogni tanto appaiono nella storia della Chiesa. Non credi?

Sono d’accordo. Solo che la “riforma” abbisogna di tempo – che nella storia della Chiesa è lungo: anzi “Ecclesia semper reformanda”. Ed il Papa Francesco ha poco tempo davanti: lo hanno eletto come il suo predecessore con 76 anni, una età in cui tutti noi chierici dobbiamo chiedere l’esonero da ogni incarico! Quando richiesto del perché, il mio vecchio amico e compagno di GS Cardinale Angelo Scola poco dopo l’elezione di Papa Francesco, sorrise e mi rispose: «non ci abbiamo pensato! Eravamo tutti frastornati dall’enorme pressione della campagna scatenata dai media mondiali sulle questioni della pedofilia del clero, delle finanze vaticane, dei matrimoni gay, ecc. Il messaggio implicito nella rinuncia di Benedetto XVI, ci è sfuggito… Ma c’è lo Spirito Santo che ci penserà!». E certamente lo sta facendo, suscitando ai vertici della Chiesa personaggi giovani – che per fortuna non mancano – capaci di cogliere l’eredità che certamente nei prossimi 8-10 anni Papa Francesco lascerà, per poterla sviluppare appieno secondo i tempi storici che sono propri della Chiesa. Così anche Papa Francesco potrà tranquillamente a suo tempo continuare la nuova tradizione inaugurata da Ratzinger e ritirarsi, felice della “missione compiuta”.

“Uno strano riformatore che non passa il tempo a dire che ci vogliono riforme. Le fa subito, con te, davanti a te, mentre ti parla. Perché in quel modo di vederti e di parlarti cambia tutto, lì, sul momento, insieme”. L’ha detto un intellettuale di sinistra, italiano, Furio Colombo…

La “stranezza” di Papa Francesco è tale, appunto a causa dell’accademismo astratto ed ideologizzante che subentra una volta che l’esperienza fraterna della comunità cristiana in cui traspare il Cristo reale, sia soffocata ed adombrata da altre forme di “vivere” il Cristianesimo. Don Giussani ci diceva in liceo che il Cristianesimo non è un “che cosa”, ma un “come”: non “cos’è” Dio, ma “come” si comunica Dio: nel semplice modo d’essere della persona e della comunità cristiana. Dovrebbe essere naturale per tutti noi cristiani lo “strano” modo di Papa Francesco al comunicare Cristo in modo così semplice: infatti Egli vive qui ed ora in noi! Ma adesso, con un Papa così, ci sarà più facile a tutti imparare da lui e cambiare.

Ma attenzione: non confondiamo una qualsiasi “affabilità” di temperamento naturale con la “fraternità” cristiana: quella è questione di ormoni o di DNA, questo è frutto della contemplazione del volto di Cristo; quella soltanto rincuora – questa letteralmente salva.

Io, tu, CL, la tua parrocchia, la Chiesa… in cosa dobbiamo cambiare?

“Cercate ogni giorno il volto dei santi, ed allietatevi con i loro discorsi”… è un’altra citazione ricorrente del Don Giuss, probabilmente di uno dei primi grandi Padri della Chiesa. Il cambiamento profondo non avviene dal di fuori, ma dal di dentro; non dall’impegno di tutta la struttura, ma dalla novità delle linfa che circola in essa. E’ la qualità del rapporto tra le persone che deve cambiare. Non basta il discorso, anche se esso è importante come tramite; ma deve nascere dal riconoscimento radicale del comune appartenere a Cristo: è solo questo che stabilisce il rapporto nuovo tra i “volti dei santi”. Ancora una volta mi viene spontaneamente in mente la mensa comune dei Papi Benedetto e Francesco alla casa Santa Marta con gli ospiti del giorno e tutto il personale di servizio, in cui non ci vuole una immaginazione molto acuta per percepire un fascino assolutamente nuovo… come osservava acutamente don Giussani parlando delle vacanze estive di Gs: “esercizi spirituali di strana fattura”!

Un cantautore molto popolare in Italia, Francesco de Gregori, esprimendo la sua delusione sulla sinistra di cui ha sempre fatto parte ha detto in una intervista che «Papa Francesco è la più bella notizia degli ultimi anni. Ma mi piaceva anche Ratzinger. Intellettuale di altissimo livello, all’apparenza nemico del mondo moderno e in realtà avanzatissimo, grande teologo e per questo forse distante dalla gente. Magari i fedeli in piazza San Pietro non lo capivano. Ma il suo discorso di Ratisbona fu un discorso importante». Che effetto ti fa un apprezzamento così?

Più che giusto questo apprezzamento, ancor di più sulla bocca di chi l’ha fatto! Il relativismo problematicista che fu il bersaglio di Benedetto XVI a Ratisbona, dev’essere stato anche il bersaglio dello sfogo di chi per anni si sforzò nel mondo accademico di testimoniare il realismo, che prima ancora di essere caratteristico della posizione cristiana, è l’eredità della “filosofia perenne”; quel filone che percorre tutta la storia della cultura planetaria fin dalle origini dell’umanità. Nel mio piccolo, ne so qualcosa anch’io che sono stato professore di gnoseologia e metafisica all’università cattolica di Belo Horizonte (!). “… Sarete veramente miei discepoli, e conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Giovanni, 8,31). È la stessa libertà che affascina oggi Papa Francesco, cha fa’ sedere tutti giorni alla stessa mensa due papi in Vaticano come fratelli diversi, ma identici nello stesso Cristo, del quale ciascuno declina un aspetto tipico nella propria personalità, nell’unica Chiesa “circumdata varietate”. Forse senz’accorgersene il cantautore che hai citato è in fondo affascinato da Cristo stesso, intuendolo – come ogni grande artista fa’ solo per il fatto di essere artista vero – nell’armonia misteriosa di verità – libertà che Benedetto e Francesco trasmettono a tutti noi: grazia insospettabile che avviene oggi sotto i nostri occhi spalancati, come quelli dei bambini al circo.

Chissà che gioia prova in cielo il nostro maestro e amico don Giussani…

E’ già manifesta l’intenzione del Papa di scrivere una Enciclica sulla povertà, dopo la Lumen Fidei di Benedetto XVI che ha fatto sua. Tu, prete missionario da sempre con i poveri te l’aspettavi? E’ necessaria?

Il riferimento necessario per rispondere a questa tua domanda, ancora una volta mi viene spontaneamente in mente: è quel passo del 2o capitolo ai Filippesi: la povertà nella Chiesa è da sempre la “forma” del tutto, è il “come” di tutto. Descrive la soggettività nuova in azione: giustifica ogni paradosso senza il quale il cristianesimo diviene irriconoscibile e si polverizza nel caos ideologico e nell’irrazionalità autodistruttrice del pianeta. Povertà della e nella Chiesa: senza cui non c’è vero amore alla povertà del e nel mondo; non c’è l’incarnazione, non c’è la nuova evangelizzazione, né un mondo rinnovato né – ultimamente – Risurrezione.

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