«Ti basta la mia grazia…» (2Cor 12,9)
Dio al centro e al vertice di tutto. La spiritualità unitiva di Padre Pio
Nell’affrontare i documenti della spiritualità di Padre Pio è impossibile non incrociare altri peculiari soggetti di interesse teologico, pure considerabili come ambiti distinti nell’Epistolario. La spiritualità, infatti, rappresenta, per così dire, il «cuore» della questione, il nodo cruciale dell’identità di Padre Pio come religioso, come sacerdote e come santo. È, ad esempio, assai difficile dividere, o «sezionare», dalla sua spiritualità generalmente compresa, la vocazione specifica che vede il santo di Pietrelcina pienamente inserito nello spirito francescano. O, ancora, considerarla senza tenere conto dell’esperienza delle stimmate, tanto legata al costante riferimento alla Passione di Cristo e alla spinta vissuta e proposta all’identificazione con la Passione stessa, oppure senza venire in contatto con la marcata impronta paolina di cui l’Epistolario è costellato; e, ancora, pretendere di descriverne i tratti essenziali prescindendo dal farsi carico, in prima persona, da parte di Padre Pio stesso, della sofferenza del prossimo, quale vero cireneo incontrato dai molti in cui egli seppe riconoscere il volto di Cristo sulla via della vita. E ancor meno, infine, è possibile separare dalla sua spiritualità personale quanto poi veniva a riversarsi in consiglio e conforto su quanti ebbero la grazia di avvicinarlo in vita, ovvero quanto lo caratterizzò come guida spirituale.
Per questi motivi è preferibile all’Epistolario di Padre Pio come a un plesso o a un punto di raccolta, intersezione e convergenza delle molteplici linee che trovano poi il loro momento di singolarità nelle Lettere raccolte nei suoi quattro tomi. Ciò non impedisce, comunque, che la si possa rintracciare sua unità particolare, che si può ravvisare in questo: nell’apparire e manifestarsi, occasionate dai momenti, esperienze, contatti più diversi, delle «specifiche» della sua spiritualità personale. Queste, quando non sono immediatamente evidenti in quanto è esplicitamente e direttamente riferito a se stesso, sono riconoscibili, a ritroso, da quanto proposto, suggerito e indicato a confratelli e amici, che in una personalità come quella del nostro santo era tale – cioè riproposto ad altri – solo e soltanto perché già vissuto, profondamente vissuto e sperimentato, in prima persona. La spiritualità rappresenta il cuore dell’identità di ogni santo e la sua prima caratteristica, fondamentale e comune a ogni uomo, pervaso dalla santità, è quella di porre al centro della propria esistenza l’Unico necessario, di farvi convergere l’insieme, come al suo vertice, di farvi attingere il senso di tutto e di farvi risultare, insieme, tutto ciò che rimane in secondo piano.
Così, anche in Padre Pio, spicca, tra tutte, la costante della priorità assoluta di Dio e dell’amore di Dio su ogni altro possibile oggetto di interesse. Spicca in quanto riemerge incessantemente e diviene misura di tutto, criterio e termine universale e decisivo di valutazione delle scelte, elemento discriminante di fronte a dubbi e tentennamenti, e ancor più termine di interpretazione della storia nell’andamento degli eventi personali. Ma come elemento assoluto, grazie al suo ricorso Padre Pio taglia di netto, seppure con dolcezza, ogni questione che gli si presenti, senza lasciare alternative al dubbio, in quanto in poche, pochissime parole, egli ottiene la massima evidenza, giacché è veramente bene, in fondo, solo tutto ciò che concorre al bene dei figli di Dio, ed è appunto la nota espressione di san Paolo ai Romani che sembra riecheggiare al fondo della sua attenta lettura della realtà, giacché una volta posto saldamente l’amore di Dio e il desiderio di fare la sua volontà, è certo che «tutto concorre al bene di coloro che amano Dio» (Rm 8,28). Ma come l’unico vero bene è il permanere nella grazia di Dio e il raggiungerlo, alla fine del pellegrinaggio terreno, ecco che per il santo del Gargano tutto è relativizzato e piegato, curvato come la stessa luce in prossimità di un intenso campo gravitazionale a questo, unico e autentico bene. Lo si coglie ogniqualvolta subentrano, nell’Epistolario, considerazioni sul proprio precario stato di salute o sugli eventuali disagi dei confratelli o, ancora, circa l’assassinio di cui fu minacciato nel 1923 (cfr. la lettera n. 19) e per cui l’unica sua preoccupazione, nella scala eterna dei valori, fu verso l’eventuale macchiarsi del delitto da parte di qualcuno.
Né questa prospettiva può essere tacciata di indifferenza verso l’effettiva negatività della sofferenza umana e terrena. Può anzi essere interessante, a questo proposito, notare che quanto è talvolta rimproverato alla comprensione cristiana della vita, di essersi dimenticata della terra e aver tollerato in modo più o meno «interessato» la sofferenza, dirottando l’attenzione degli animi ai beni celesti, è smentito palesemente – come lo è, a ben vedere, dall’intera storia della Chiesa – dall’impegno profuso dallo stesso Padre Pio nel realizzare l’opera della Casa Sollievo della sofferenza, la cui idea manifestò a due medici nel gennaio del 1940 e che vide compiuta, superati innumerevoli ostacoli, nel maggio del 1956.
Solo tenendo conto di una tale completezza di prospettive è possibile comprendere adeguatamente la centratura e sublimazione in Dio di tutti i beni e valori più volte manifestata da Padre Pio e da lui stesso vissuta, senz’altro più acutamente che in altri, come si conviene del resto alla santità, secondo ciò che testimoniano le parole di una lettera rivolta a padre Agostino il 29 dicembre 1912: «È un tormento così amaro per me il vivere la vita dell’esilio, che quasi quasi non ne posso più. Il pensiero che in ogni istante posso perdere Gesù mi dà un affanno che non so spiegarlo; solo quell’anima che ama sinceramente Gesù potrà saperlo».
A questo proposito niente di più sbagliato sarebbe il ritenere – come, va detto, accade per certa stampa divulgativa – le forme straordinarie assunte dai fenomeni mistici verificatisi in Padre Pio il risultato, faticosamente raggiunto, di un esercizio ascetico personale. Possiamo riconoscere in questo equivoco una contaminazione, nella comprensione della mistica cristiana, con quanto invece appartiene alle esperienze religiose delle culture orientali (il buddhismo in particolare), o ancora la sovrapposizione di categorie proprie a una prospettiva gnostica che sta conoscendo ai giorni nostri una nuova stagione di consensi e, talvolta, persino di inconsapevoli infiltrazioni nello stesso modo di intendere la fede cristiana. Secondo queste prospettive l’elevazione spirituale dell’anima, con i fenomeni eventualmente straordinari che ne conseguono, dipende dall’attività personale quale risultato di pratiche le quali non farebbero che «liberare» le (supposte enormi) potenzialità dello spirito umano, ovvero quanto è già da sempre insito o inscritto in esso. Nulla di più lontano dall’autentica tradizione spirituale ascetica e mistica del cristianesimo, che ha sempre considerato quanto pertiene alla vita spirituale in diretta dipendenza dalla vocazione alla santità il cui primo atto è di Dio stesso e in cui tutto è suscitato dal libero soffio dello Spirito Santo e dal dono della grazia. Nulla di più lontano dalla spiritualità di Padre Pio, che mai attribuì a sé qualità straordinarie né tantomeno le riferì, quale eventuale frutto, a un personale impegno di ascesi. È noto, invece, e ampiamente documentato, che non parlava di propria iniziativa dei doni eccezionali che in lui si manifestavano né dell’intensità del fervore che provava, che attribuì sempre all’iniziativa di Dio e durante l’adolescenza addirittura ritenne facessero parte della vita ordinaria di qualsiasi anima. Così egli scrive il 1° novembre del 1913 a padre Benedetto, circa la qualità della propria preghiera: «Quello che so dire di questa orazione si è che l’anima sembrami che si perda tutto [sic!] in Dio, e che essa profitti in tali momenti più di quello che potrebbe fare in molti anni di esercizio con tutti i suoi sforzi. Molte altre volte mi sento compreso da un impeto assai veemente, mi sento tutto struggere per Iddio, sembrami proprio di morirne. Tutto questo nasce non da qualche considerazione, ma da una fiamma interna, e da un amore tanto eccessivo che se Iddio non mi venisse in aiuto a breve andare ne sarei consumato».
In tutto ciò, quella di Padre Pio si dimostra una spiritualità sostanzialmente unitiva, giacché tutte le esperienze, stati d’animo e fenomeni vissuti sono riferibili a quella che la teologia mistica chiama la «presenza infusa di Dio nell’anima», ovvero ancora l’«inabitazione nell’anima della Santissima Trinità». La «vita d’unione» mistica muove i primi passi dal silenzio, dal «far tacere tutto intorno a sé» per meglio intendere la voce di Dio (cfr. la lettera n. 16 del presente volume) e si manifesta in lui nella compartecipazione alle sofferenze di Cristo, condivise fin sul piano della corporeità, secondo lo spirito del desiderio già espresso da san Francesco, prima di ricevere le stimmate (si veda, in proposito, la lettera n. 11, ma più diffusamente i due primi volumi dell’Epistolario).
Una spiritualità della confidenza, per una teologia della storia personale ed ecclesiale
Lo sguardo permanentemente fisso in Cristo Gesù che contraddistingue la nota fondamentale — o, se vogliamo, il «basso continuo» — del canto spirituale di Padre Pio suscita in lui uno spirito di confidenza intimo e profondo, che pervade la sua anima e trapela da ogni sua pagina e che ci sembra costituire la prima specifica relativa della spiritualità del nostro santo. Tale confidenza consiste principalmente nell’affidamento, pieno e totale, di sé, delle proprie scelte, del proprio destino, a Gesù Cristo Signore della storia. Questo diviene in Padre Pio un atteggiamento la cui spontaneità è percepibile nelle stesse parole in cui si manifesta ed è tale da risultare traboccante e riversarsi, dunque, su ogni persona con la quale viene in contatto epistolare a titolo di principale indicazione regolativa, permanentemente connessa a quella dell’elezione del proprio unico Bene e Fine in Dio stesso. Così, a padre Paolino scrive il 21 aprile 1915 di «maggiormente confidare nella divina misericordia» e, poco oltre, gli suggerisce di trasmettere una simile esortazione a una persona raccomandatasi alle sue preghiere (lettera n. 1); a padre Basilio esclama: «Abbandoniamoci nelle braccia del divin Padre» (n. 3) e di fronte alla tempesta ripete con san Paolo «Ti basta la mia grazia» (2Cor 12,9, cfr. lettera n. 6); o rassicura all’amico Eligio: «Gesù è vicinissimo a te» (n. 2); o ancora conforta padre Angelico: «Gesù non ti abbandonerà mai nelle prove del corpo, né in quelle dello spirito» (n. 10); o raccomanda fra Emmanuele di desiderare la perfetta carità «con maggiore confidenza» (n. 12).
Da questo spirito di totale confidenza procede una lettura assolutamente serena della storia personale ed ecclesiale, che ancora si manifesta tanto riferita a sé quanto ai destinatari delle lettere. Così, ancora a padre Paolino assicura che «Colui che vi ha aiutato finora continuerà la sua opera di salvezza» (lettera n. 1) e a più riprese tutto è visto alla luce del riuscire gradito al «tenerissimo Sposo» (nn. 6, 7).
Nella piena confidenza nel Signore prende allora forma una vera e propria teologia della storia, tanto personale quanto ecclesiale, ovvero della prima come compresa contestualmente alla seconda e che proietta una luce di misericordia sul passato quanto di speranza nel futuro (cfr. nn. 3, 14), ma è incentrata, quanto all’agire, nel presente, secondo la più schietta tradizione biblica, vetero e neotestamentaria alla quale si richiama: «Pensate a fare il bene oggi, e quando l’indomani sarà arrivato, si chiamerà oggi, ed allora ci penserete. Abbiate confidenza nella Provvidenza; è necessario farsi provigione di manna per un solo giorno e non più» (n. 8; cfr. Es 16,13-15; Mt 6,34).
È in relazione a questa stessa confidenza che va compresa l’intensa vita di preghiera come contemplazione ma pure, costantemente, come intercessione presso Dio per i confratelli e tutte le persone che si raccomandano alla sua orazione e per cui vale comunque il principio di reciprocità, cosicché il nostro santo si dichiara a sua volta continuamente bisognoso e chiede la preghiera dei confratelli. Così lo vediamo dichiarare a padre Basilio: «Non mancherò di fare sempre memoria di voi davanti a Gesù» (n. 5), secondo una formula ricorrente, con le debite varianti, in numerose lettere (cfr. n. 11). In relazione a questo, non manca di apparire con evidenza quella sollecitudine per la salvezza delle anime (cfr. n. 20) che pertiene imprescindibilmente alla santità stessa e che completa la figura di Padre Pio come modello di vita spirituale.
Una spiritualità dell’umiltà e dell’obbedienza, improntata all’equilibrio
Da quanto appena detto si comprende anche che la spiritualità di Padre Pio va pure compresa contestualmente all’esercizio dei consigli evangelici nell’ordine dei frati minori, di cui in particolare torna incessantemente il riferimento all’obbedienza, forse perché è quella che a Padre Pio costa di più, sia per il precario stato di salute che rendeva poco sopportabili locazioni come quella nel convento di Foggia (cfr. la lettera n. 4), sia per le incomprensioni di cui fu oggetto e le pesanti restrizioni al proprio ministero sacerdotale, pure imposte a titolo puramente prudenziale a fronte del pericolo di derive nel fanatismo popolare di un’irrefrenabile notorietà, pericolo che provocò non poco imbarazzo alla sua vita di semplicità e umiltà tutta francescana. Nondimeno tali restrizioni, come i trasferimenti di convento in convento, furono sempre vissute nella massima obbedienza, sostenuta dalla persuasione che nelle disposizioni imposte dai superiori si manifestasse la volontà di Dio o, meglio, che esse costituissero l’analogato terreno e visibile della dipendenza del creato dalla volontà di Dio. Come per la confidenza, anche la sensibilità e l’attenzione particolare manifestata per l’obbedienza si riversa nelle esortazioni ai confratelli, e gli fa scrivere, ad esempio, al padre Basilio: «Continuate ad ubbidire e così vi sarete assicurato il miglior premio che possa ripromettersi un’anima amante di Gesù» (lettera n. 3). Ma lo spirito di obbedienza tien dietro all’umiltà, «umiltà più interna che esterna, più sentita che mostrata, più profonda che visibile» (n.13, cfr. n. 15), da lui vissuta e professata.
A questo va ad aggiungersi la docilità nella sofferenza, vissuta e raccomandata nella comprensione della stessa come «prova della fedeltà» a Dio (cfr. n. 9) e motivo di «maggior santificazione» (n. 10). In tutto ciò potrà risultare interessante per molti, abituati all’immagine inautentica di un Padre Pio dalla spiritualità irraggiungibile, il grande equilibrio dimostrato nel trattare della vita dello spirito e nel cui merito si entrerà maggiormente in profondità nel volume dedicato alla sua direzione spirituale. Ciò che, per il momento, va comunque osservato, è che tale equilibrio si manifesta nella diffida verso idealità di perfezione «immaginaria», cui il nostro santo oppone il realismo della «vera perfezione» commisurata all’effettivo stato della natura umana (cfr. le lettere nn. 8, 11, 12, 15). È contro un tale illusorio modello che Padre Pio smaschera, per così dire, «l’inganno del nemico» (n. 12) nell’approfittare dell’insoddisfazione dei figli di Dio per insinuarsi nella breccia del turbamento e dell’agitazione dell’anima. Di fronte alla minaccia di un nemico che suole «pescare nel torbido» (n. 6), Padre Pio propone la serena accettazione delle proprie miserie (n. 15), salva restando un’altrettanto serena e salda volontà di amare e servire Dio, nella fiducia che se lo Sposo è accanto e, perciò, «con un sì forte guerriero non vi è lecito dubitare del completo trionfo sull’apostata infame ed impuro» (n. 6).
Come è evidente, un tale equilibrio torna, ancora una volta, ad attingere al profondo e limpido spirito di totale confidenza nel Signore, per cui il nostro santo raccomanda, infine di rimettere «l’esito del nostro desiderio [di una pura carità] alla provvidenza di Dio, ed abbandonandoci nelle sue paterne braccia, come un fanciullo» (n. 11).
———
Introduzione tratta dal volume "Padre Pio. Modello di vita spirituale" (ed. San Paolo) curato da padre Gianluigi Pasquale.