Non avevo mai sentito una testimonianza così appassionata e convincente di quello che significa il mio essere cristiano e prete. Avevo studiato il latino, il greco biblico, l’ebraico, l’ermeneutica e l’esegesi, per capire bene i Vangeli e la vita di Cristo, ma nessuno mi aveva mai detto in modo così chiaro e personalizzato che la fede in Cristo, per contare qualcosa nella vita, deve diventare amore appassionato a Gesù, che mi rende più simile al Figlio di Dio, l’autentico “uomo nuovo”. Giussani lo ripeteva: se la fede non cambia e non rende più umana la vita dell’uomo e della società, non conta nulla. Grazie a Giussani il mio sacerdozio divenne più pieno e più vero. Intendiamoci, ero già ben instradato, tirato su da due genitori che – a Dio piacendo – sono avviati alla beatificazione, e poi c’era stato il seminario diocesano di Vercelli e il Pime; ma quegli incontri con don Gius mi hanno scosso e fatto bene.
Il secondo aspetto che ricordo di quei primi contatti con Giussani erano i suoi studenti di ginnasio e liceo che si impegnavano “nella Caritativa”, come dicevano, nella Bassa milanese. Negli anni Cinquanta Milano era molto più piccola di oggi, c’era una forte immigrazione di lavoratori dal Meridione, dal Veneto, dalle Marche e da altre regioni d’Italia. La nostra Via Monterosa, ad esempio, quando studiavo teologia al Pime (1949-1953) era quasi in periferia, oggi siamo più verso il centro città che la periferia cittadina. Don Giussani mandava gruppetti di giessini a fare “esperienza di vita” nei paesini di campagna del sud-ovest milanese (dove c’era già il Pime, dal 1906), nelle cascine e nei casoni di 4-5 piani senza ascensore presi d’assalto dagli immigrati, nelle baracche provvisorie di chi aveva già un lavoro ma non trovava ancora dove abitare. A Rozzano, Zibido San Giacomo, Cesano Boscone, Buccinasco, Baggio, Vizzolo Predabissi, Moirago, dove in capannoni precari col tetto di lamiera nascevano le nuove parrocchie, erano presenti gli studenti e studentesse di GS di prestigiosi licei del centro milanese, quindi di famiglie della ricca borghesia (Berchet, Zaccaria, Manzoni, Gonzaga, Carducci, Parini, Salesiani, Benedettine, Marcelline, Feltrinelli, Virgilio….). Ogni domenica pomeriggio, in quei quartieri nascenti, cascine e baracche, d’accordo con i parroci, i giessini andavano a condividere con le famiglie di immigrati, allestendo corsi di alfabetizzazione per gli adulti, insegnando il catechismo, facendo giocare i ragazzi e i molti bambini senza asilo, visitando i poveri e gli ammalati. Ricordo che i parroci erano edificati perché quegli studenti non erano alcune decine, ma migliaia, e non venivano una volta ogni tanto, ma tutte le domeniche e alcuni anche al sabato!
Il merito primo di Giussani, secondo me, è stato di saper presentare a noi giovani Gesù Cristo vivente oggi in noi, facendoci incontrare con la persona di Gesù, toccando il cuore di molti. Questo uno dei segreti del carisma di questo grande prete e Maestro: convinceva anche dando ragione della sua fede, ma soprattutto commuovendo e convincendo chi lo ascoltava senza pregiudizi e col cuore libero e aperto1. E poi di far incontrare i suoi studenti di Gs con i fratelli e sorelle meno fortunati, imparando a conoscere i problemi dell’uomo nel contatto frequente e amichevole con altre persone, non solo nelle tesi di laurea sui libri. Quante amicizie sono nate e quante vocazioni sacerdotali e religiose e missionarie!
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Poi ho perso di vista don Giussani, da quando ho seguito a Roma il Concilio Vaticano II (1962-1965), come giornalista dell’Osservatore Romano per le due-tre pagine conciliari quotidiane e “perito” per il Decreto “Ad Gentes”. Per noi, giovani sacerdoti, quello era il tempo dell’entusiasmo per la diffu
sione della fede cristiana nel mondo. Il Concilio aveva suscitato molte speranze, aveva riformato e ringiovanito la Chiesa, che (anche per Giovanni XXIII e Paolo VI e la presenza a Roma di circa 2500 padri conciliari!), attirava simpatie e consensi. Soprattutto era un Concilio “pastorale” e non “dottrinale”. Indicava con forza e chiarezza che l’”aggiornamento” delle strutture e il rinnovamento dei metodi pastorali avevano lo scopo primario di poter annunziare Cristo in modo credibile a tutti i popoli. Proprio la missione universale (“ad gentes”) alla quale noi missionari ci siamo consacrati!
Giovanni XXIII aveva profetizzato che “il Concilio sarà una nuova Pentecoste della Chiesa”, come noi giovani sognavamo. Il mondo ci sembrava pronto alla semina evangelica. Ricordo che durante il Concilio e nei primi anni seguenti, proprio in forza dello spirito conciliare di fede, speranza e carità, aumentavano notevolmente le vocazioni sacerdotali e religiose, nascevano le “missioni diocesane” (dopo la “Fidei Donum” di Pio XII nel 1957) e molte iniziative e Ong contro “la fame nel mondo” che finanziavano le micro-realizzazioni dei missionari (sono stato tra i fondatori di Mani Tese al Pime di Milano nel 1964, con padre Giacomo Girardi).