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Padre Pio, un uomo segnato dall’Amore

padre Gianluigi Pasquale - pubblicato il 19/09/13

Il segreto delle “Lettere” del santo da Pietrelcina che 95 anni fa ricevette le stimmate

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Segno del permanere della profezia

Il dono delle stimmate in Padre Pio da Pietrelcina (1887-1968) appartiene indubbiamente al carisma profetico, il quale «deve rimanere in tutta la Chiesa fino alla venuta finale» (Eusebio di Cesarea, Historia ecclesiastica, V, 17, 4). Come per il primo stigmatizzato della storia, che fu Francesco d’Assisi (1181-1226), anche per questo suo figlio sacerdote, il segno corporeo delle stimmate presenta, da questa prospettiva, due caratteri tra loro inscindibili. Con il primo, le stimmate testimoniano che nella storia della Chiesa il dono profetico non è mai venuto meno, e mai lo verrà. Il secondo evidenzia che, come segno di conversione, l’atto antropologicamente più qualificante è quello dell’abbandono a Dio mediante la propria fede.

Colui che interpreta profeticamente le stimmate di padre Pio, come pure quelle di Francesco d’Assisi, oppure della monaca Clarissa Cappuccina Santa Veronica Giuliani (1660-1727), lo fa sapendo molto bene che Dio parla nella storia mantenendo uniti parola e segno, il quale rileva la medesima parola. Gesù, che è il rivelatore in pienezza di Dio Padre per mezzo dello Spirito, nelle stimmate ricevute con i chiodi sulla croce e con la trafittura di lancia sul costato, inizia per primo questo modo che ha Dio di segnare la parola incarnata, quando essa si rivela pienamente nel suo unico Figlio e, per sola grazia e sua misericordia, anche in creature segnate dal giorno del loro battesimo. Se le stimmate di Padre Pio sono, dunque, un segno della profezia del Nuovo Testamento, esse non vanno collocate sotto quella cappa opprimente di una mera conoscenza degli eventi futuri, dei vaticini, ma nel loro essere segno, sono ancora per il cristiano di oggi una parola di conforto, di fiducia e di speranza.

Padre Pio è stato un frate Cappuccino del secolo XX, spirato all’indomani della chiusura del Concilio Vaticano II (1962-1965) che, in questo senso, viene profeticamente in aiuto alla nostra debolezza e, per chi ha ancora occhi capaci di vedere e contemplare, permette di osservare nella potenza della fede, della speranza e della carità, l’atto che in esse è già presente e operante. Per questa ragione, precisamente, Padre Pio è seguìto in tutto il mondo da folle innumerevoli che, oramai, è difficile poter calcolare. Alla pari di Francesco d’Assisi e di Veronica Giuliani, egli incarnava la spiritualità francescana, ma, come rivela chiaramente questa collezione del suo Epistolario, visse l’inatteso e sofferto dono delle stimmate come autentico sacerdote. A soli trentun anni, infatti, riceve questo segno d’amore di Gesù crocifisso, essendo già sacerdote da otto anni e religioso Cappuccino da quindici. E nella storia della Chiesa è, finora, il primo sacerdote stigmatizzato.

Quel crocifisso del 20 Settembre 1918

Padre Pio era nato a Pietrelcina (Benevento) il 25 Maggio 1887 da Grazio Maria Forgione e Maria Giuseppa Di Nunzio. Il giorno seguente fu battezzato nella chiesa arcipretale di Santa Maria degli Angeli con il nome di Francesco. Il 22 Gennaio 1903 veste l’abito Cappuccino nel noviziato di Morcone e cambia il nome di battesimo in quello di fra’ Pio da Pietrelcina. Il 22 Gennaio dell’anno seguente è ammesso alla professione temporanea dei tre voti religiosi di povertà, castità e obbedienza, mentre quattro anni dopo, secondo le norme canoniche allora vigenti, emette la professione perpetua dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini. Espletato il percorso curriculare degli studi di Teologia con alcune brevi interruzioni a causa della sua malferma salute, viene ordinato sacerdote nel sacello dei Canonici del Duomo di Benevento il 10 Agosto 1904. Dopo una breve permanenza in vari conventi, viene definitivamente trasferito in quello di san Giovanni Rotondo (FG), dove vi rimarrà ininterrottamente per cinquantadue anni, fino alla morte sopravvenuta il 23 Settembre 1968.

La mattina del 20 Settembre 1918, all’età di trentuno anni, padre Pio viene segnato, mediante impressione fisica, dal dono delle stimmate. Quella mattina cadeva di venerdì, giorno in cui Gesù venne crocifisso e tutto si svolse dalle ore 9 alle 10. Il fenomeno delle stimmate era stato preceduto da quello della trasverberazione, ossia delle stimmate invisibili nelle mani e nel costato. La sera del 5 Agosto 1918, dunque poco più di un mese prima la vera stigmatizzazione fisica sul corpo, padre Pio fu ferito da un misterioso personaggio mentre confessava i ragazzi in chiesa. Colpito con una lunga lamina la cui punta era di fuoco, sentì il dolore che i mistici, come san Giovanni della Croce (1542-1591), definiscono l’«assalto del Serafino», e dovette ritirarsi a stento con forti dolori che durarono fino al mattino del 7 Agosto successivo. Rimase a letto, nascondendo a tutti la vera causa della sua sofferenza. Solamente più tardi dichiarerà che fu fisicamente ferito al costato.

Per chi è credente, la data del 20 Settembre 1918 assume delle connotazioni cronologiche del tutto singolari. Di lì a poco, la grande guerra del secolo XX si sarebbe conclusa, ponendo fine a tanto spargimento di sangue, mentre erano trascorsi appena tre giorni dalla festa liturgica dell’impressione delle stimmate di san Francesco, che si celebra il 17 Settembre. Anche sette secoli prima, infatti, san Francesco, solo in preghiera sul Monte della Verna in Toscana, il 14 Settembre del 1224, chiese due grazie: percepire nell’anima e nel corpo il dolore sostenuto da Gesù in croce e sentire nel suo cuore quell’amore immenso che gli faceva sopportare volentieri la passione e la morte per la salvezza degli uomini. E in quel momento, nelle mani e nei piedi del Poverello di Assisi cominciarono ad apparire i segni dei chiodi, in quel modo che egli aveva allora visto nel corpo di Gesù crocifisso, come pure una ferita nel costato. Seguendo la descrizione della Lettera 1 che qui apre l’Epistolario, si osserva che lo stesso fenomeno accadde anche a padre Pio. La mattina di quel 20 Settembre il convento era più deserto del solito, addirittura svuotato. Il Guardiano era a san Marco in Lamis, per preparare la festa di san Matteo apostolo. Fra’ Nicola, il questuante, era fuori per il suo giro con le bisacce. Restava soltanto Padre Pio, il quale, a Messa finita, mentre i suoi confratelli stavano nel cortile per ricrearsi, sostava nel coro solo, in silenzio. Forse stava pregando in suffragio delle vittime della guerra e della terribile epidemia influenzale di quell’anno (la «spagnola»), oppure stava offrendosi vittima per la fine dell’una e dell’altra. Lo lasciano supporre la sua sensibilità alle sofferenze umane e la sua disponibilità generosa a pagare lui per gli altri.

La chiesa deserta, in quel paesaggio montano già deserto, conciliava maggiore intensità alla preghiera. Padre Pio, inginocchiato nel coro sopraelevato rispetto alla porta d’ingresso della chiesetta che ancora si vede, aveva dinanzi a sé un crocifisso, innalzato sulla balaustra del coro ristretto, dal quale si vede la cappella maggiore del presbiterio. Quel crocifisso, un Cristo e una croce tutt’oggi presenti, è di legno di cipresso. L’ignoto scultore del Seicento, badando poco alle proporzioni anatomiche, riuscì a dare al Cristo morente un’espressione dolorosa, benché cruda. L’accentuata colorazione del sangue, che cola dalle numerose ferite, impressiona chiunque lo guarda. Il Cristo, dagli occhi aperti appare dolorante, tormentato, con il corpo in movimento nel tentativo di cercare una posizione meno dolorosa. In quel momento di preghiera in coro, padre Pio era solo. Nessuno fu spettatore del fatto. Ed è soltanto lui che può dire cosa successe. Lo narrò con rigore documentario di cronaca, a padre Benedetto suo direttore spirituale, a distanza di trentadue giorni, con la Lettera del 22 Ottobre 1918, perché da lui richiesto di dire «per filo e per segno tutto e per santa obbedienza» (Lettera di Padre Benedetto a padre Pio del 19 Ottobre 1918).

Dalla ricostruzione dell’esperienza autobiografica emergente dall’Epistolario, si constata che anche padre Pio prova un’immensa fatica a esprimere adeguatamente il fenomeno del dono delle stimmate, difficoltà che accomuna tutti i mistici di fronte a un fenomeno che trascende totalmente l’ordine creaturale. Per il santo del Gargano è, tuttavia, possibile poter delineare i seguenti caratteri. Innanzitutto, Padre Pio medita la passione di Cristo davanti al crocifisso ligneo, chiedendo di partecipare così vivamente ai dolori della crocifissione «da diventare un secondo crocifisso». Successivamente, egli trapassa in un’estasi d’amore durante la quale l’immagine si fonde con un «grande personaggio» non meglio specificato. Quindi, dalle piaghe del crocifisso partono frecce luminose in direzione delle mani, dei piedi e del costato del veggente. Alla fine, dopo l’estasi, il santo si accorge dell’apertura delle ferite.

Senza Francesco d’Assisi non vi è Padre Pio

La migliore analogia che, allora, si può creare tra Francesco d’Assisi e Padre Pio per il dono delle stimmate ruota, da una parte, intorno ai complessi rapporti tra anima e corpo, tra malattia e santità, dall’altra alla straordinaria sensibilità che caratterizzava entrambi. A proposito delle frequenti infermità di Francesco, specialmente dopo la sua conversione, e di Padre Pio, è notevole il fatto che scienza psichiatrica e teologica convengano sul fatto che le stimmate sono un singolare linguaggio del corpo. «Le stigmate non erano», scrive Umberto Galimberti, «simulazioni escogitate per trarre in inganno, né malattie che presupponevano cause, ma forme primitive di comunicazione in chi non ne possedeva di più evolute» (Psichiatria e fenomenologia, 279). Ma paragonare Francesco d’Assisi e Padre Pio significa soprattutto osservare la loro straordinaria sensibilità. Il Poverello ha lasciato un’impronta indelebile nella religiosità dell’epoca e di tutti i tempi, proprio per la sua carica di sentimenti e capacità di espressione poetica, come dimostra una serie di episodi biografici, quale la celebrazione del Natale a Greccio, il suo Cantico di frate Sole e il suo fraterno amore a tutto il creato. Similmente, anche dall’Epistolario del santo del Gargano e dalla testimonianza di coloro che lo frequentavano, emerge un’affettività non comune che Padre Pio manifestò con naturale immediatezza, assieme a un immenso bisogno di esserne ricambiato. Il suo cuore affettuoso si rivela nella facilità con cui si commuove, nei pianti frequenti, per «compatire» con la passione di Cristo e con le sofferenze altrui.

La straordinaria sensibilità di entrambi trapela, però, anche da un’altra inconfondibile caratteristica: il pudore di fronte ai segni apparsi nel loro corpo. Il Poverello seguiva un criterio di massimo riserbo a riguardo di tutte le esperienze spirituali, temendo di mettere a repentaglio la loro efficacia con la vanagloria, se le avesse manifestate ad altri senza che gli fosse giunto un esplicito cenno di Dio in questo senso. Sulla scia di un suo comportamento abituale, Francesco d’Assisi attinse a tutte le risorse della sua intelligenza per tenere nascoste le sue ferite perfino davanti agli occhi incuriositi dei frati addetti alla sua assistenza sanitaria. Non meno interessante si rivela il modo di reagire del santo padre Pio, dopo essere stato stigmatizzato. Nella sua Lettera del 22 Ottobre 1918, quella qui pubblicata per prima e indirizzata al suo padre spirituale Benedetto da san Marco in Lamis, esprime la speranza che Gesù tolga da lui «questa confusione che io sperimento per questi segni esterni», ritenendoli motivo «di una umiliazione indescrivibile e insostenibile». È, inoltre, caratteristica la corrispondenza di atteggiamento con quello tenuto da Francesco in casi simili, rinvenibile quando padre Nazzareno da Arpaise (1885-1960), probabilmente non molto tempo dopo l’evento, durante un familiare colloquio chiese insistentemente di poter vedere la piaga del costato. «Mi rispondeva», scrive padre Nazzareno, «con quel passo del libro di Tobia: è bene tenere nascosto il segreto del Re» (Tb 12,7). Anche padre Paolino da Casacalenda (1886-1964) testimonia che Padre Pio, dopo le stimmate, coprisse le ferite delle mani con i guanti e si tenesse premuta una benda, che gli girava attorno al petto, ossia attorno la ferita del costato.

Sacerdote stigmatizzato

Se il carisma profetico deve rimanere in tutta la Chiesa fino alla venuta finale del Signore glorioso, e se le stimmate rientrano nel permanere di questo carisma della storia anche attuale della Chiesa, Padre Pio sarà certamente ricordato per essere stato il primo sacerdote stigmatizzato. Nella dialettica sopra enunciata di parola e segno, qui deve essere certamente presente, in modo recondito, un significato per tutti i sacerdoti e, soprattutto, per coloro che si avviano con fede e amore a esserlo. Nel santo Cappuccino Pio da Pietrelcina, infatti, il segno delle stimmate non può essere correttamente compreso senza sapere che egli era anche un sacerdote. I tratti della spiritualità sacerdotale che, da questa prospettiva, si possono evincere dalla Lettere pubblicate nell’Epistolario di Padre Pio rivestono non solamente i canoni classici della mistica cristiana, ma anche il carattere di un’indubbia attualità. La selezione della corrispondenza epistolare potrebbe ruotare attorno a questi tre temi: lettere che descrivono la felicità dell’anima nell’incontro con Dio, in particolare rivelatosi nel suo Figlio Gesù; brani che fanno riferimento alla situazione di sofferenza dell’anima; testi che esprimono il desiderio di compiere la volontà del Padre che sta nei cieli. Ma questi sono anche i modi con i quali padre Pio visse come sacerdote, segnato dalle stimmate, la sua consacrazione alla diffusione del Regno di Dio e per il bene delle anime, modi che inalveano ogni esistenza sacerdotale, giovane o meno giovane che sia, in Cristo sacerdote.

Il segreto del Re non si deve rivelare

Con il segno e il dono delle stimmate, padre Pio è un sacerdote che, come tutti gli altri, possiede un segreto che non si può rivelare, quello del Re di ogni esistenza presbiterale che è il Dio di Gesù Cristo. Padre Pio stigmatizzato mostra, in modo inequivocabile, il rapporto personalissimo che sussiste tra il Dio e quella persona consacrata che opera e annuncia in persona Christi. È un rapporto che Padre Pio, citando il Cantico dei Cantici (6,3) esprimeva così: «io sono tutto pel mio diletto, e il mio diletto è tutto per me» (Lettera 25). A questo proposito, è interessante notare che, tra i libri dell’Antico Testamento, i più citati nelle Lettere sono Giobbe, i Salmi e il Cantico dei Cantici. I primi due sono presenti soprattutto nella fase della notte oscura, per descrivere la sofferenza spirituale di Padre Pio, la sua identificazione con il peccatore che si percepisce lontano da Dio o con Giobbe che, colpito dalla sofferenza, cerca in Dio il suo punto di riferimento stabile. Ma è soprattutto nella citazione dal Cantico dei Cantici che affiora l’animus sacerdotale del santo del Gargano, ossia negli impeti di amore e di gioia per il suo diletto: «Ditegli che fino a quando un’anima non arriverà a ricevere questo bacio non potrà giammai stringere un patto con lui» (Lettera 25). Padre Pio vive una forte tensione verso questo amore, lo cerca, lo possiede, lo desidera nuovamente. Gesù non è più solo il modello, ma diventa una presenza coinvolgente, al tal punto che Padre Pio vorrebbe far sue le parole di san Paolo «non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Gal 2,20) (Lettera 14).

Il desiderio della presenza di Gesù nella vita di Padre Pio diventa una vera e propria assimilazione e produce in lui profonda dolcezza. Nelle Lettere che vanno dal 1910 al 1912, quelle del primo periodo, si percepisce tutta la gioia di quest’anima sacerdotale e stigmatizzata che si sente invadere da Cristo: «è una felicità che quasi solo nelle afflizioni il Signore mi dà a gustare» (Lettera 2). Ciò che il Signore compie nell’animo di Padre Pio è un’opera di vera e propria seduzione, spingendolo addirittura a offrirsi vittima per consolare Gesù, valicando, nel contatto con Cristo, le dimensioni del tempo e dello spazio, e inserendolo in un’atmosfera di profonda serenità. In una lettera del 10 Agosto 1911, infatti, scritta in occasione della sua ordinazione sacerdotale, così di esprime: «Vado paragonando la pace del cuore, che sentii in quel giorno, con la pace del cuore che incomincio a provare fin dalla vigilia, e non ci trovo nulla di diverso» (Lettera 9).

Le lettere di questo periodo, ovviamente precedente quello della stigmatizzazione, sono ricche di frasi simili a queste. In esse traluce il fatto che Padre Pio conosca Gesù come persona, in un rapporto interpersonale completamente appagante, seducente, ma soprattutto rassicurante. E, si sa, sono queste le tre peculiarità che danno fondamento duraturo all’esistenza di un sacerdote. Padre Pio si rende conto dell’autentico valore di Cristo ed è oramai nella posizione di chi è disposto a pagare qualsiasi prezzo per comprare il campo ove ha trovato un tesoro nascosto (Mt 13,44), ossia quell’amore che non osa dire il suo nome, quel segreto del Re che non si può del tutto rivelare (Tb 12,7).

Sofferenza dell’anima

Parallelamente alle citazioni del Cantico dei Cantici sono presenti nelle Lettere di Padre Pio parecchie citazioni prese dal libro dei Salmi e da quello di Giobbe. Il santo del Gargano utilizza i Salmi per lodare il Signore e Giobbe come esempio di pazienza. Ma soprattutto questi due libri, più una citazione di Giona, servono a descrivere la situazione di sofferenza che Padre Pio vive nel periodo della «notte oscura», quello cronologicamente databile prima e immediatamente dopo il dono delle stimmate. Così scrive Padre Pio, riprendendo le espressioni di Giobbe: «Oh! Felici giorni di mia vita, quando il dolcissimo mio Bene era con me e abitava dentro del mio cuore dove sono andati?» (Lettera 18). Ma che senso ha quel fenomeno mistico denominato la «notte oscura»? Come è descritta da Padre Pio nelle Lettere, la causa della «notte oscura» è da ricondursi proprio a esperienze spirituali di profonda serenità e dolcezza che un’anima vive nel suo rapporto personale con Gesù (Lettera 29). A un certo punto, per salire alla divina unione con lo Sposo, è necessario che l’anima venga purificata da ogni imperfezione attuale e abituale. Tutto questo avviene attraverso quella che padre Pio chiama una «luce altissima che penetra tutta l’anima, intimamente la trafigge e la rinnova» (Lettera 16). Questa luce investe l’anima in modo «penale e desolante», causandole «afflizioni estreme e pene interiori di morte» (Lettera 16). Ciò che più stupisce è che in questo periodo l’anima non riesce a comprendere l’opera di Dio e allora è presa da forti angosce e sofferenze. L’idea del peccato la opprime al tal punto che solo una grazia particolare di Dio le impedisce di smarrirsi. E questa grazia è quella che unisce in lui, come in ogni sacerdote, la profonda dolcezza e serenità di essere permanentemente legati alla persona di Gesù, benché possa essere momentaneamente presente l’attimo di quella notte oscura che genera privazione e, quindi, sofferenza.

Figlio di una spiritualità dichiaratamente francescana, per Padre Pio Gesù è, infatti, prima di ogni altra cosa, il Bene: un Bene sommo, molto diverso, tuttavia, da Colui che riempiva di felicità l’anima nei primi periodi della sua vita mistica. È un Bene che è totalità, pienezza, ma amaramente Padre Pio constata che è anche un Bene in questo momento allontanatosi, che lascia un vuoto tremendo e non si fa trovare. Infatti, la totalità che riempie l’anima è anche una forza morale, si può perfino dire una totalità morale, per la quale l’anima percepisce nella pienezza la propria miseria. Ma se manca la presenza, rimane solo il Nulla. E da questa prospettiva affiorano le pagine più sentite delle Lettere di Padre Pio, nelle quali si legge un dolore profondo che sale prima a Dio e poi al padre spirituale dal quale si invoca una luce: «potrà salvarsi quest’anima peccatrice?» (Lettera 37). Proseguendo nell’Epistolario, ci si accorge, poi, che il momento purificatore viene raggiunto nell’assoluta oscurità, quando Dio non si fa vedere, quando Dio tace. Si è qui, anche per padre Pio, al momento della passione rappresentato dal grido: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato» (Lettera 314), sovente riproposto nelle lettere ai suoi direttori spirituali.

Gesù è la terra promessa di ogni sacerdote

Quale segno del permanere della profezia nella Chiesa, il dono delle stimmate al giovane Padre Pio, offre al santo la consapevolezza di portare sulle proprie spalle il peso della fedeltà alla parola di Dio. E questo è un fardello di cui non può disporre, né liberarsi perché l’obbedienza nel fare la volontà di Dio Padre corrisponde alla fedeltà alla parola ricevuta, nonostante qualsiasi provocazione esterna o desiderio del popolo. La chiamata a essere profeta possiede un carattere talmente vincolante con la parola ricevuta, che niente e nessuno possono distogliere dal compiere la missione nel fare quel «fiat voluntas tua». Anche per questo terzo aspetto Padre Pio sa bene che tutto ciò significa percorrere sentieri sconosciuti o in chiara opposizione alle prospettive umane, perché non fu facile per lui restare fedele alla parola. La tentazione di assentire ai desideri della gente e a quanto ad essa piaceva fa capolino in diverse Lettere. Anche la tensione nel dover scegliere tra l’obbedienza a Dio e il desiderio di ciò che il popolo voleva udire, non fu un tratto sconosciuto nella vita spirituale del santo, tutt’altro. È risaputo che anche per lui si rese ineluttabile la scelta tra il vivere tranquillo in mezzo agli altri, oppure il subire castighi per la fedeltà alla parola.

La possibilità realizzata di questa fedeltà nel compiere la volontà di Dio gravita attorno alla fonte prima della vita mistica stessa di Padre Pio, quella di assomigliare sempre più a Cristo, modello dell’esistenza sacerdotale. Per lui, infatti, l’opera di Cristo si svolge in due momenti: da una parte è Gesù che rende l’uomo simile a sé; dall’altra Cristo cerca sempre più di abitare in Padre Pio, di rendere la sua anima, i suoi sensi, veramente e completamente suoi, ossia di Cristo. Ci si trova qui, effettivamente, dinanzi a una unione trasformante che, soprattutto nel periodo che va dal 1917 al 1918, è accompagnata da numerosi fenomeni mistici, quali il deliquio e il letargo delle potenze e dei sensi, le ferite d’amore al cuore, il tocco sostanziale, la trasverberazione. Sono tutte manifestazioni che, in qualche modo, fanno da preludio alla stigmatizzazione.

Il più delle volte, però, Padre Pio sembra lasciarsi andare nella grandezza di quanto viene a gustare e, così, dal fenomeno della lontananza passa a momenti di straordinaria intimità con Dio. Evagrio Pontico († 399), nel suo De oratione, spiega che in queste situazioni ci si trova dinanzi a una «ignoranza infinita» dell’ambiente, fino a raggiungere non più una semplice estasi, ma una «catastasi», che è una sorta di situazione diretta unicamente alla visione e alla contemplazione di Dio. È l’itinerario conoscitivo di Dio, cui accenna anche Gregorio di Nissa (335-395) quando parla di uno stadio della luce, seguìto da quelli della nuvola e delle tenebre, dove l’intelletto viene posto dinanzi alla sua incapacità di contemplare Dio senza dover uscire da se stesso. Anche Padre Pio parla di Dio che si va nascondendo «dietro una nube», o in una «folta nebbia», oppure esplode in espressioni come «quanto è felice il regno interno» (Lettera 35).

Mentre l’amore e il dolore si stampano nel suo animo in questo alternarsi di fitta caligine e di straordinari bagliori, Padre Pio entra in contatto con l’assoluto, con Dio stesso. Le forze fisiche non oppongono più alcuna resistenza e la parola diventa silenzio. Ecco quanto scrive in una delle lettere più significative, dove il santo Cappuccino riesce a raggiungere perfino tratti di autentica liricità: «Una volta sola ho sentito nella più secreta ed intima parte del mio spirito una cosa sì delicata, che non so come poterla dare ad intendere. L’anima sentì dapprima, senza poter vedere, la di lui presenza ed in seguito, direi così, egli si avvicinò sì strettamente all’anima, che questa avvertì pienamente il di lui toccamento, proprio, per darvene una pallida figura, come suole avvenire quando ci accade che il nostro corpo tocchi strettamente un altro. Non so dire altro in riguardo, solo vi confesso che fui preso dal di più grande spavento in principio, che di lì a poco fu cambiato questo spavento in una celestiale ebbrezza. Mi sembrò che non fossi più nello stato di viatore, e non saprei dirvi se quando ciò avvenne avvertii o no di essere ancora in questo corpo. Iddio solo lo sa ed io non saprei dirvi altro per meglio darvi ad intendere questo avvenimento» (Lettera 28).

È questo il momento culminante dell’opera di Cristo, in cui l’anima è intensamente coinvolta in uno stato di quiete assoluta e per il quale essa può, allora, compiere pienamente la volontà del Padre, obbedendo fedelmente alla parola ricevuta. E tutto ciò, se è valso per Padre Pio, ugualmente vale per qualsiasi altro sacerdote chiamato alla medesima missione. Il divino Maestro non è più soltanto la luce, non è solo la guida, ma è il luogo all’interno del quale l’uomo realizza in pienezza la sua felicità. Gesù è la terra promessa, è la persona dove Dio si manifesta in tutta la sua totalità e rappresentabilità. Gesù, insomma, è l’ambiente nel quale il Padre si rivela nello Spirito. Gesù è il vivente, è la parola rivelatrice del Padre, quella parola che in Padre Pio è stata vergata con il segno delle stimmate, per confermare, con il dono della sofferenza, che egli fu imitatore di Francesco d’Assisi, come Francesco lo fu di Cristo.

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