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Soldati in Cristo

bimbo e militare italiano

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Lucandrea Massaro - pubblicato il 06/09/13

Intervista a monsignor Vincenzo Pelvi, ordinario militare emerito, sui cristiani nelle Forze Armate e lo sforzo per la pace
La possibilità di una guerra in Medio Oriente ci induce ad una riflessione sul ruolo dei cristiani nelle Forze Armate. L'invito del Papa ad una pace durevole e alla concordia tra le nazioni non fa che rendere le domande circa le posizioni della dottrina sociale della Chiesa su questo argomento siano di stringente attualità. Per capire come si concilia l'essere soldato con la fedeltà a Cristo, Aleteia ha intervistato Monsignor Vincenzo Pelvi, per sette anni ordinario militare, di recente andato in congedo, e che quindi ha svolto il ruolo di guida spirituale e pastorale per gli uomini e le donne che svolgono il servizio militare in Italia.

Cosa vuol dire essere cristiani ed essere soldati? Che tipo di dubbi incontra un soldato quando si accosta alla Confessione e in generale ai Sacramenti?

Mons. Pelvi: Un cristiano può essere soldato. Un militare può essere cristiano, se vive la sua professione come servizio alla sicurezza e alla libertà dei popoli. La vita militare del cristiano va posta in relazione con il comandamento dell’amore a Dio e al prossimo. L’amore vero non sopporta di restare semplice intenzione o parola, ma si fa gesto e opera. Di qui la carità del soldato che soccorre le vittime di calamità naturali, che aiuta lo sbarco di profughi, che promuove i diritti fondamentali della persona in luoghi martoriati. 
Quando il militare celebra il sacramento della Confessione ha come riferimento il precetto della carità e può capitare che viva un forte disagio interiore accompagnato da sensi di colpa, quando ritiene che il suo impegno mette a rischio il bene della pace. Ricordo alcuni militari che recentemente hanno collaborato nell’attacco aereo in Libano e pur abbattendo esclusivamente depositi di munizioni e armi percepivano un senso di responsabilità non comune senza capire dove finiva lo strumento di difesa e cominciava quello di offesa. 
Il militare italiano, pur impegnato in azioni “belliche” resta un credente con una convinta onestà morale che scommette sull’accoglienza dell’altro più che sulla sua sicurezza. Egli, perciò, non si vendica, non porta odio, si prende cura di tutti, anche di chi lo contrasta. Certo la vita sacramentale apre i cuori e le menti a inediti percorsi di fraternità. L’incontro con Gesù Cristo è il primo e principale fattore di pace.
La guerra non è forse una delle attività più "anti-cristiane" per eccellenza? Come ci aiuta la Dottrina sociale della Chiesa?
Mons. Pelvi: Come ha detto Papa Francesco, il 2 giugno scorso, incontrando i nostri militari feriti e i familiari dei giovani caduti nelle missioni di sicurezza: Dio piange per la pazzia della guerra. Essa può considerarsi come l’attività umana più anticristiana, in quando uccide l’umanità e uccide l’amore che il cuore del messaggio evangelico. I veri educatori di pace mettono in gioco la vita per la compassione, la collaborazione, la fraternità, coltivando il gusto per ciò che è giusto e vero, anche quando tutto comporta andare contro corrente. L’umanità è una grande famiglia e ciascuno deve offrire il proprio contributo al bene comune. Non viviamo gli uni accanto agli altri per caso e la società non è un’aggregazione di vicini ma una comunità di uomini che percorrono uno stesso cammino.
Papa Francesco ha indetto una giornata di preghiera e digiuno per la pace in Siria, ma ha anche attivato la diplomazia vaticana perché spinga le nazioni ad un ripensamento del loro ruolo. La lettera al G20 va in questa direzione, ma può bastare in uno scenario come quello della Siria?
Mons. Pelvi: Perché risolvere i problemi con una nuova guerra? Perché il potere e la ricchezza sono più importanti delle persone? La guerra è un atto di fede nel denaro, nell’odio, nella violenza e porta a uccidere il fratello. Papa Francesco con la sua lettera al G20 scuote le coscienze e disarma i cuori, invitando a costruire il dialogo tra i popoli, riformando i sistemi e le strutture della convivenza umana. La lettera è illuminata dai gesti quotidiani del Pontefice che insegnano come le persone siano fatte per la comunione reciproca. La pace dipende soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia, dove singoli, gruppi e culture sono accomunati da quell’umano che nulla toglie alla loro diversità. Intanto è veramente necessario avviare la mobilitazione internazionale di tutte le persone di buona volontà per offrire fattivo aiuto e concreto sostegno alle migliaia di profughi della Siria e di altri Paesi.
Ci siamo abituati a pensare che se durante la Seconda Guerra Mondiale in Italia non avessimo avuto oltre ai partigiani anche l'aiuto degli Americani, non ci saremmo mai liberati della presenza nazifascista e quindi della dittatura e occupazione tedesca. Questo intuitivamente ci fa dire che in determinate circostanze l'uso della forza è legittimo: anche in Siria c'è una dittatura sanguinaria o la situazione è differente? E perché? 
Mons. Pelvi : L’umanità vive oggi come ieri grandi divisioni e forti conflitti. Vaste aree della terra sono coinvolte in tensioni crescenti e la situazione della Siria suscita apprensione e inquietudine in ogni persona responsabile. Il Medio Oriente è attraversato da guerre e attentati, che influenzano Nazioni e regioni limitrofe, rischiando di coinvolgerle nella spirale della violenza. Cosa fare? Certo è cambiata la categoria di “potenza” da non attribuirsi tanto alla forza militare ma piuttosto a quella economica e politica. Ciò spiega che si è più sensibili a intervenire in Medio Oriente per il petrolio anziché in Africa contro il fanatismo religioso. In realtà la democrazia non si esporta con le armi, non si radica nei popoli imponendola militarmente, ma facendola fiorire sul tronco dell’umano concreto e universale che si trova in essi. La democrazia è un’attitudine dello spirito che cresce lentamente e gradualmente nel tempo. Potranno esserne divulgate la nozione, gli aspetti tecnici, ma non la sua anima etica. Nessuno può tralasciare l’autonoma determinazione da parte dei popoli e la previa maturazione di condizioni etiche, psicologiche e socio culturali delle persone.
L'Italia può svolgere un ruolo di mediazione? E' ancora sufficientemente autorevole nel Mediterraneo e in Medio Oriente per proporre soluzioni alternative come in Libano?
Mons. Pelvi: La pace è un compito da adempiere quotidianamente con tanto maggiore impegno quanto più grandi sono le responsabilità che la vita pubblica assegna a ciascuno. L’Italia da sempre sostiene la necessità di un’azione multilaterale e concordata, nell’ambito di organizzazioni internazionali – in primo luogo le nazioni Unite – ispirate al dialogo, al rispetto reciproco, alla solidarietà. La nostra Nazione è chiamata a svolgere un ruolo di mediazione nel Mediterraneo e Medio Oriente dove ha una notevole presenza data la penetrazione commerciale realizzata. L’incisività della mediazione italiana, espressa ad esempio già nel significativo lavoro di contatti israeliti – palestinesi, diventerà sempre più vera nella misura in cui si realizza una stabilità di governo. In questa situazione pare fruttuosa l’iniziativa del Ministero degli esteri che chiede ad Assad di firmare la convenzione internazionale che mette al bando le armi chimiche. Potrebbe essere un primo germe per allontanare le nubi che sono all’orizzonte dei nostri giorni.

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