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La pace se non è vissuta giornalmente diventa ideologia

Quando la pace diventa pacifismo

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Redattore Sociale - pubblicato il 04/09/13

“Bergoglio ci chiede un coinvolgimento personale e quotidiano", afferma il frate cappuccino Paolo Martinelli:

di Stefano Caredda

ROMA – C’è la pace di chi mette in discussione se stesso e la propria vita, a partire dalle relazioni e dai rapporti quotidiani, e c’è quella di chi invece ha un approccio esclusivamente ideologico e strategico, si riempie la bocca di “pace”, è in prima linea nelle proteste contro l’intervento statunitense in Siria, ma non vive realmente in una dimensione di incontro e dialogo. Uno scarto sostanziale, che segna la distanza fra il significato che papa Francesco ha voluto dare al suo appello per la pace in Siria (che in questi giorni sta accumulando adesioni in tutto il mondo) e le interpretazioni più superficiali che pure non sono mancate. Per approfondire il senso dell’appello lanciato dal pontefice e comprenderne meglio il suo significato abbiamo chiesto aiuto a padre Paolo Martinelli, frate cappuccino, professore ordinario di Teologia degli stati di vita alla Pontificia Università Antonianum.

Quale messaggio ha voluto mandare il papa con le parole pronunciate domenica scorsa all’Angelus?


Affermando di volersi fare interprete del “grido che sale da ogni parte della terra” il papa ha richiamato tutti al fatto che davanti a quanto sta accadendo non si può più essere spettatori: la sua è anzitutto una richiesta di coinvolgimento e di partecipazione, un appello alla libertà di ogni uomo perché non sia più indifferente di fronte ad un grido così grande. Nelle sue parole (forti, accorate, tutt’altro che formali) c’è poi un giudizio di valore storico, che da un lato indica l’inganno che c’è dentro l’ideologia della guerra (la guerra non può mai risolvere la guerra) e dall’altro fa dire che se si vuole veramente il bene di ogni persona occorre rendersi conto che l’unica vera strada è quella, faticosa, drammatica, del confronto, del dialogo, dell’attenzione vicendevole.

E come si dovrebbe riflettere questa consapevolezza nella vita di ciascuno?


L’appello del papa ci fa uscire allo scoperto non tanto perché dobbiamo “armarci e partire” ma per capire che c’è qualcosa di profondamente quotidiano che ci riguarda in quello che sta accadendo. Si chiede che la mia vita quotidiana si disponga diversamente nel vivere i rapporti di tutti i giorni, perché se la pace e la riconciliazione non è riconquistata ogni giorno nella propria famiglia, nei rapporti di lavoro, nelle persone che incontro, allora le richieste universali diventano un po’ nominaliste. Significa che devo ripartire da me e dalle mie relazioni per essere promotore di una cultura di incontro e dialogo. C’è una messa in discussione come responsabilità personale, ma nella vita quotidiana. E’ lì che si vede se sono per la pace o se sono un ideologo della pace, è lì che si capisce se ho la pazienza di creare la pace nella mia vita o se il mio è solo un discorso ideologico e astratto, che paradossalmente diventa anche violento, poiché alla fin fine ogni ideologia e ogni utopia hanno questa caratteristica se non hanno la pazienza di stare alla vita reale di tutti i giorni.

Quale è il legame fra questo impegno e la proposta di una giornata di digiuno e di preghiera?


Il nostro compito è quello di una presenza testimoniante che sia capace di comunicare una visione positiva che promuova la cultura dell’incontro: questa è l’unica strada per la pace. La proposta del papa è una giornata di digiuno e di preghiera. Si tratta di due espressioni fondamentali del senso religioso dell’uomo. Il primo, la preghiera, è il gesto della mendicanza, forse il gesto più potente fra quelli che sono nella libertà dell’uomo: quando le persone infatti sollevano la loro preghiera, quando invocano Dio, esprimono la realtà più intima che hanno dentro. Il papa lo propone pubblicamente, non è un gesto privato: esso espone certamente i cristiani ma ha un significato forte anche dal punto di vista umano. Il senso è quello che la pace non è qualcosa che costruiamo noi, ma qualcosa che dobbiamo domandare con forza, e nel domandarla ci disponiamo nel modo migliore a diventare noi stessi, per primi, collaboratori della pace.

Quale è invece il senso del digiuno?


Il digiuno è una forma per esprimere la partecipazione della propria vita con coloro che sono nel bisogno. È un gesto forte di condivisione, la sperimentazione di una rinuncia che si fa a sua volta solidarietà e vicinanza. Non è uno sciopero della fame, non è semplicemente un gesto strategico, ma è espressione dell’uomo che riconosce più profondamente il suo bisogno. Siamo immersi in una sorta di imperativo di godimento a tutti i costi, facilmente ci saziamo in modo superficiale: il digiuno fa ritornare al bisogno originario, fa prendere contatto con desiderio profondo che c’è in noi e che spesso oscuriamo attraverso quelle soddisfazioni a buon mercato che la società ci permette. Allora il digiuno è un gesto in cui la persona torna a stare con il proprio bisogno, senza mascherarlo: non solo il bisogno fisico, ma anche il nostro bisogno di bene, di felicità, di pace, che da soli non siamo in grado di darci. Con il digiuno insomma riscopriamo il carattere “mendicante” che l’uomo ha in sé e che specialmente in momenti come questi siamo chiamati a riscoprire come primo contributo per poter portare avanti una cultura di pace non strategica ma reale e vissuta.

Tutto questo ha una valenza anche per chi non è cristiano o credente?


La preghiera e il digiuno sono gesti non solo religiosamente potenti ma anche antropologicamente significativi perché dicono che l’uomo è questo bisogno che va oltre la propria misura e che perciò tende le mani verso Dio e in questo tendere le mani vuole coinvolgere tutti e qui pone la premessa per una cultura di pace. In fondo pregare e digiunare sono due gesti che promuovono la cultura dell’incontro e del dialogo, cosa che invece il progetto ideologico non conosce perché pensa di poter risolvere con una mossa strategica qualcosa che può venire solo dall’alto.

La figura di San Francesco d’Assisi e la stessa cittadina umbra sono diventati nel tempo come un’icona che rimanda alla pace, alla povertà e alla solidarietà. In cosa consiste davvero questa pace?


Sappiamo che San Francesco dice nei suoi scritti che il Signore stesso gli rivelò che doveva rivolgersi alle persone con l’espressione “Il Signore ti dia pace”. C’è un legame diretto fra l’idea della pace e l’idea dell’incontro con l’altro. La prima parola che devo dire all’altro è “Il Signore ti dia pace”. Ciò vuol dire che l’incontro stesso con l’altro deve poter ospitare questa pace, che è qualcosa che viene da Dio. Non ce la diamo noi. E in questo San Francesco è molto chiaro: l’idea di pace è strettamente legata al perdono, alla riconciliazione, alla misericordia. Non è una pace come contratto sociale ma è una pace come accoglienza vicendevole fino al perdono dell’altro, del suo limite, del suo errore, del suo peccato. San Francesco ricorda che il Signore ci dà pace e che non c’è vera pace senza riconciliazione e perdono. E’ un richiamo molto forte che vale sempre e in particolare in tempi come questi. Con la certezza che nel momento in cui agiamo per la pace con questo spirito, già solo questo significa porre in atto qualcosa di vero, che rimarrà comunque. Anche se quel “grido che si leva da tutta la terra” per evitare un intervento militare in Siria dovesse purtroppo restare inascoltato.

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