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Teologi europei: la Chiesa non riesce più a comunicare positivamente

La Chiesa non riesce più a comunicare positivamente

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padre Gianluigi Pasquale - pubblicato il 03/09/13

Dall'incontro a Bressanone è emerso il pericolo di una Chiesa pronta soprattutto ad ammonire o mettere in guardia

Dal 29 Agosto al 1° Settembre scorso si è tenuto a Bressanone l’ottavo Congresso Internazionale dei Teologi Cattolici Europei sul tema «Dio in questione. Il linguaggio religioso e i linguaggi del mondo». Il primo si celebrò nel 1989. Tra le varie relazioni, due temi hanno suscitato un vivace dibattito. Il primo inerente la presenza reale e soggettiva del male nella società e nella Chiesa. Nel confrontarsi con l’Olocausto si sono riviste e modificate le consuete prospettive su Dio e sul male. Oltre all’immagine della “morte di Dio” ad Auschwitz (Richard Rubenstein), (a) Dio è diventato un “abusatore” (David Blumenthal), un Dio “con-passionevole” (Jürgen Moltmann) o è stato chiamato anche “author intellectualis” dell’Olocausto (Ignace Maybau); è stato anche compreso come (b) opposizione radicale al male (Emmanuel Levinas, Emil Fackenheim). C’è da osservare che la terza pospettiva teologica, (c) cioè quella che interpreta il male come assenza di Dio ovvero del bene (privatio boni), è rimasta – secondo l’ungherese Prof. Didier Pollefeyt –, nell’ambito della teologia dell’Olocausto, in secondo piano: essa costituisce, tuttavia, una delle chiavi interpretative più importanti per riflettere sulla relazione tra Dio e male alla luce della trazione teologica.

Un altro tema che ha fortemente polarizzato l’attenzione è stata la domanda inerente la constatazione di come il linguaggio ecclesiale sia spesso così negativo. La Chiesa, secondo la giornalista tedesca dr.ssa Christiane Florin, interviene pubblicamente per lo più per ammonire o mettere in guardia. Ci avverte del pericolo del relativismo, dell’individualismo e del capitalismo sfrenato; i vertici del mondo ecclesiastico temono un clima anticlericale di reminiscenza pogromista, unito a una certa “fobia cattolica”. Termini chiave del linguaggio religioso come gloria, santità, eternità, risurrezione, speranza, amore e forza erano in origine carichi di significato positivo; ora, invece, non si riesce a trasmetterli al di là delle mura ecclesiastiche in maniera comprensibile ed efficace. Un’immagine carica di ipocrisia è tutto ciò che circola ancora nei mass-media quando si parla di santità della Chiesa. Le autorità della Chiesa, sia i religiosi che i laici, reagiscono all’impressione di non essere ascoltati o di essere marginalizzati, in tre modi diversi: 1. tuonando con una sorta di trionfale risentimento “contro lo spirito dei tempi moderni, contro la fede che va scomparendo”; 2. opponendo l’impotenza del rimando all’infinito (“credere oggi insieme e sperare domani alla luce del Vangelo”); 3. alzando forte il grido di gioia dei convertiti di recente e di quelli da lunga data (“Io! Sono! Salvo!”). C’è un altro modo? Positivo e tuttavia non affermativo? Comprensibile e tuttavia non artificiosamente accattivante? Evidentemente l’uso del linguaggio ecclesiale è più una questione di atteggiamento che di scelte lessicali.

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