Intervista a Josè Maria di Paola che racconta la sua esperienza con Bergoglio come vescovo di Buenos Aires
di Leonardo Cavallo
Josè Maria di Paola è per tutti padre Pepe. Vive e opera nelle villas miserias, le favelas argentine, dove la droga uccide moltissime persone. Anche grazie all’aiuto e alla protezione dell’arcivescovo Bergoglio, sta cambiando la vita di tanti giovani tossicodipendenti, a costo di gravi minacce e intimidazioni da parte dei narcos. Ne parlerà oggi, all’incontro delle 11.15 in D5 (al Meeting di Rimini, ndr). Con spunti e ricordi che intanto ha anticipato al Quotidiano Meeting.
Don Pepe, da dove è nata la tua vocazione al sacerdozio?
«Fin da bambino un sentimento religioso mi è stato trasmesso dalla mia famiglia insieme alla vocazione al servizio ai più po-veri. Poi alle medie ho incontrato un sacerdote: è stato fondamentale per il mio orientamento».
E la scelta di dedicarti ai poveri?
«Anche questa è nata in famiglia e poi si è approfondita in seminario. Lì ho incontrato figure decisive per la mia vita come il vescovo Angelelli, don Carlos Mugica e monsignor Oscar Romero».
Quale spirito anima la tua iniziativa nella villa?
«Lavoro all’interno della mia parrocchia e in questi anni abbiamo dato vita a tanti progetti: dalla creazione di scuole di formazione all’organizzazione di campeggi, da associazioni sportive a scuole secondarie. Tutto questo per formare “leader positivi”. Accanto a ragazzi che spacciano e girano armati, ce ne sono tanti, anche grazie alla nostra opera di prevenzione, che studiano e che lavorano. Accanto a questi progetti preventivi, lavoriamo anche per la riabilitazione di giovani tossicodipendenti grazie alla rete di “case di Cristo”».
In una tua intervista hai definito l’allora arcivescovo Bergoglio come l’“arcivescovo villero”…
«Da sempre si è coinvolto con la nostra missione. In forma personale visitava le villas. Inoltre è stata sua l’iniziativa di raddoppiare il numero dei sacerdoti destinati alle villas. È grazie a lui se l’intera diocesi di Buenos Aires ha sostenuto le nostre opere».
L’attuale papa Francesco alcuni anni fa ha detto che noi tutti dovremmo imparare dai villeros. Tu in questi anni cosa hai imparato?
«Tutti abbiamo da imparare quello che i villeros possono dare alla nostra società: religiosità e solidarietà. È facile lavorare nella villa: quando c’era bisogno di costruire delle mense popolari tutti si sono mossi con spontaneità e rapidità donando il loro lavoro volontariamente. Ho imparato ad essere sacerdote in maniera totale, perché non c’è separazione tra le azioni: si va dal dire Messa all’assistenza agli anziani, dal lavoro manuale al battesimo dei bambini… Anche all’interno della villa la gente ha una totalità di visione: non esiste divisione tra sociale e religioso ma è tutto unito. E fa specie vedere che la festa più sentita è quella della Vergine di Caacupé. Tutti vi partecipano».
Fai un lavoro di grande responsabilità, ogni giorno sei a contatto con disagio e povertà: come fai ad alzarti al mattino senza sentirti schiacciato da questo compito così gravoso?
«Mi alzo con entusiasmo perché sono consapevole di non poter risolvere io tutti i problemi che ci sono, ma che rispondo alle sfide che di volta in volta mi si presentano, ai bisogni concreti che ho davanti».
Il papa ha detto che nell’ambiente in cui operi c’è bisogno di Gesù tanto quanto del pane che ogni mattina sfornate e distribuite…
«Nelle villas il sentimento religioso è l’alimento quotidiano. Lì non c’è l’agnosticismo ma tutti, pur nelle diverse confessioni, hanno il sentimento religioso: è diffuso come il pane!».
Perché sei qui al Meeting?
«Mi hanno invitato. E poi sono amico di tante persone del Movimento in Argentina. Per me la testimonianza che terrò domani è un modo di mostrare la coerenza tra Bergoglio e Francesco: dopo l’elezione a papa non è cambiato».