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L’intervista di Papa Francesco all’emittente brasiliana Rede Globo

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L'Osservatore Romano - pubblicato il 31/07/13

"Sono incosciente, ma non ho paura. So che nessuno muore prima che venga la sua ora"

Giovedì 25 luglio, durante il viaggio a Rio de Janeiro, il Papa ha rilasciato in spagnolo a Gerson Camarotti, di GloboNews, una lunga intervista, andata in onda domenica 28 nel corso del programma «Fantástico» dell’emittente brasiliana Rede Globo. Diamo qui di seguito quasi per intero, in una nostra traduzione italiana, il testo dell’intervista, pubblicata integralmente in portoghese sul sito dell’emittente e in italiano su quello del nostro giornale. Traduzione curata dall’Osservatore Romano.

*** 

Papa Francesco, lei è arrivato in Brasile ed è stato accolto con molto calore dai brasiliani. C’è una rivalità storica tra Brasile e Argentina, per lo meno nel calcio. Come mai ha ricevuto questo gesto d’affetto dai brasiliani?

Mi sono sentito accolto con un affetto che non conoscevo, molto calorosamente. Il popolo brasiliano ha un grande cuore. E la rivalità credo che ormai sia completamente superata. Perché abbiamo negoziato bene: il Papa è argentino e Dio è brasiliano.

È una grande soluzione, non è vero Santo Padre?

Mi sono sentito molto ben accolto, con grande affetto.

Santo Padre, in Brasile lei ha utilizzato un’automobile molto semplice. Si dice che lei ha persino rimproverato i sacerdoti che usano macchine di lusso nel mondo. Ha anche deciso di risiedere nella casa Santa Marta. Questa sua semplicità è una nuova indicazione che i sacerdoti, i vescovi e i cardinali devono seguire?

Sono cose diverse, bisogna distinguere e spiegare. L’automobile che uso qui è molto simile a quella che uso a Roma. A Roma uso una Ford Focus blu. Un’automobile semplice, che potrebbe avere un impiegato normale. Su questo punto, penso che dobbiamo dare testimonianza di una certa semplicità, direi addirittura di povertà. Il nostro popolo esige povertà dai sacerdoti. Lo esige nel senso buono del termine. Il popolo sente il suo cuore ferito quando noi che siamo consacrati siamo attaccati al denaro. È una cosa brutta. E veramente non è un buon esempio che un sacerdote abbia un’automobile ultimo modello, di marca. Lo dico ai parroci. A Buenos Aires lo dicevo sempre: è necessario che il parroco abbia una macchina, è necessario, perché nella parrocchia ci sono mille cose da fare, deve muoversi. Ma deve essere una macchina modesta. Questo per quanto riguarda l’automobile. Quanto alla decisione di vivere a Santa Marta, non è stato tanto per motivi di semplicità. Perché l’appartamento papale è grande, ma non è lussuoso. È bello, ma non ha il lusso della biblioteca del piano sottostante, dove si riceve la gente, con opere d’arte molto belle. È piuttosto semplice. Ma la mia scelta di vivere a Santa Marta è dipesa dal mio modo di essere. Non posso vivere solo. Non posso vivere chiuso. Ho bisogno del contatto con la gente. Allora, sono solito spiegarlo così: sono rimasto a Santa Marta per motivi psichiatrici, per non dover soffrire quella solitudine che non mi fa bene. E anche per motivi di povertà, perché altrimenti avrei dovuto dare al psichiatra tanti soldi… E questo non va bene. È per stare con la gente. Santa Marta è una casa dove vivono circa quaranta tra vescovi e sacerdoti che lavorano nella Santa Sede. Ha centotrenta stanze, più o meno, e sacerdoti, vescovi, cardinali e laici, ospiti a Roma, risiedono lì.. Io mangio nel refettorio comune. Vi faccio colazione, pranzo e cena. Incontro sempre persone diverse, e questo mi fa bene. È questa la ragione. E ora la regola generale. Credo che Dio ci stia chiedendo, in questo momento, più semplicità. È una cosa interiore, che chiede alla Chiesa. Il concilio già aveva richiamato l’attenzione su ciò. Una vita più semplice, più povera.

Santo Padre, quando è arrivato a Rio de Janeiro sono stati commessi degli errori nel sistema di sicurezza. La sua automobile si è ritrovata in mezzo alla folla. Ha avuto paura? Qual è stato il suo sentimento in quel momento?

Io non ho paura. Sono incosciente, ma non ho paura. So che nessuno muore prima che venga la sua ora. Quando mi toccherà, quello che Dio vorrà, sarà. Ma prima di partire sono andato a vedere la papamobile che doveva essere portata qui. Aveva tanti finestrini. Se vai a vedere qualcuno a cui vuoi tanto bene, amici, con voglia di comunicare, vai a visitarli dentro una cassa di vetro? No. Non potevo venire a vedere questo popolo, che ha un cuore così grande, dietro una cassa di vetro. E nell’auto, quando vado per le strade, abbasso il finestrino, per poter tirar fuori la mano, salutare. Ossia, o tutto o niente: o uno fa il viaggio come lo deve fare, con comunicazione umana, o non lo fa; la comunicazione a metà non fa bene. Ringrazio — e su questo punto voglio essere molto chiaro — la sicurezza del Vaticano, per il modo in cui hanno preparato questa visita, per lo zelo dimostrato. E ringrazio la sicurezza del Brasile. Ringrazio moltissimo, perché anche qui si prendono cura di me, e vogliono che non mi accada nulla di sgradevole. Può succedere, può succedere che qualcuno mi dia una botta… può accadere. Entrambe le sicurezze hanno lavorato molto bene. Ma tutte e due sanno che sono un indisciplinato, da questo punto di vista… Ma non per fare l’enfant terrible. Ma semplicemente perché vengo a visitare la gente, desidero trattarla come gente. Toccarla. 

Il suo grande amico, il cardinale brasiliano Cláudio Hummes, mi ha parlato diverse volte della sua preoccupazione per la perdita di fedeli qui nel continente, soprattutto in Brasile, che passano ad altre religioni, principalmente a quelle evangeliche. Io gli ho chiesto: perché ciò avviene e che si può fare?

Non conosco le cause e neppure le percentuali. Ho sentito parlare di questo tema, della preoccupazione per l’allontanamento della gente, in due Sinodi dei vescovi: in quello de 2001 sicuramente, e poi in un altro Sinodo. Non conosco la vita del Brasile per poter dare una risposta. Credo che il cardinale Hummes è stato uno di quelli che ne ha parlato, ma non sono sicuro; se lei dice che ne ha parlato, è perché lo sa. Non saprei spiegarlo. Immagino una cosa. Per me è fondamentale la vicinanza della Chiesa. La Chiesa è madre, e né lei né io conosciamo nessuna mamma “per corrispondenza”. La mamma dà affetto, tocca, bacia, ama. Quando la Chiesa, occupata in mille cose, trascura la vicinanza, se ne dimentica e comunica solo con documenti, è come una mamma che comunica con suo figlio per lettera. Non so se questo è accaduto in Brasile. Non so, ma so che in alcuni luoghi dell’Argentina che conosco è accaduto proprio questo: la mancanza di vicinanza, di sacerdoti. Mancano sacerdoti, allora si lascia un paese senza sacerdote. E la gente cerca, ha bisogno del Vangelo. Un sacerdote mi raccontava che era andato come missionario in una città del sud dell’Argentina, dove non c’era un sacerdote da quasi venti anni. Chiaramente la gente andava ad ascoltare il pastore, perché sentiva il bisogno di ascoltare la parola di Dio. Quando giunse lì, una signora molto colta gli disse: «Sono arrabbiata con la Chiesa perché ci ha abbandonato. Ora vado al culto la domenica ad ascoltare il pastore, è stato lui ad alimentare la nostra fede in tutto questo tempo». Mancanza di vicinanza. Parlarono di questo, il sacerdote l’ascoltò, e quando stavano per salutarsi, lei gli disse: &l
aquo;Padre, un momento, venga». Lo portò fino a un armadio. Aprì l’armadio e dentro c’era l’immagine della Vergine. Gli disse: «Padre, la tengo nascosta perché non la veda il pastore». Quella donna andava dal pastore, lo rispettava, lui le parlava di Dio e lei lo accettava, perché non aveva il suo ministro. Le radici di appartenenza le conservò nascoste in un armadio. Ma le aveva. È questo il fenomeno forse più serio. L’episodio mi mostra spesso il dramma di questa fuga, diciamo, di questo mutamento. Mancanza di vicinanza. Riprendo l’immagine. La madre fa così con il figlio: lo cura, lo bacia, lo accarezza e lo alimenta. Non per corrispondenza.

Bisogna stare vicini, non è così? Più vicini.

Vicinanza: è uno dei modelli pastorali per la Chiesa di oggi. Voglio una Chiesa vicina.

Quando è stato scelto nel conclave, la Curia romana era bersaglio di critiche, persino critiche interne di vari cardinali. E il sentimento che ho percepito, per lo meno da parte dei cardinali con i quali ho parlato, era di mutamento. Questo sentimento era corretto?

Apro una parentesi, per un momento. Quando sono stato eletto, avevo accanto a me il mio amico, il cardinale Hummes, perché, secondo l’ordine di decananza, eravamo uno dietro l’altro. È stato lui a dirmi una frase che mi ha fatto tanto bene: «Non ti dimenticare dei poveri». Che bello! La Curia romana è stata sempre criticata. A volte di più, altre di meno. La Curia si presta a critiche, e dato che deve risolvere tante cose, alcune cose piacciono, altre no; alcune procedure sono ben indirizzate, altre sono mal impostate, come in ogni organizzazione. Direi questo: nella Curia romana ci sono molti santi. Cardinali santi, vescovi santi, sacerdoti, religiosi, laici santi, gente di Dio, che ama la Chiesa. Questo non si vede. Fa più rumore un albero che cade di un bosco che cresce. Si sente il rumore degli scandali. Adesso ne abbiamo uno: uno scandalo di trasferimento di dieci o venti milioni di dollari di un monsignore. Bel favore fa alla Chiesa, questo signore, vero? Bisogna riconoscerlo, questo signore ha agito male, e la Chiesa deve dargli la punizione che merita, perché ha agito male. Ci sono casi del genere. Prima del conclave ci sono le cosiddette congregazioni generali. Noi cardinali abbiamo avuto una settimana di riunioni. E lì abbiamo parlato chiaramente dei problemi. Abbiamo parlato di tutto, perché siamo tra di noi, per vedere qual era la realtà e tracciare il profilo del futuro Papa. E lì sono venuti fuori problemi seri, derivanti in parte da tutto ciò che voi conoscete già, come Vatileaks. C’erano problemi di scandalo. Ma continuavano a esserci anche i santi. Quegli uomini che hanno dato e continuano a dare la propria vita per la Chiesa in modo silenzioso e con zelo apostolico. Si è parlato anche di certe riforme funzionali che bisognava fare. È vero. Ed è stato chiesto al nuovo Papa di cercare di formare una commissione outsider, per studiare i problemi di organizzazione della Curia romana. Un mese dopo la mia elezione, ho nominato questa commissione di otto cardinali, uno di ogni continente — due per l’America, uno per quella del nord e uno per quella del sud — con un coordinatore anche lui latinoamericano e un segretario italiano. La commissione ha iniziato a lavorare, a sentire le opinioni di vescovi, di conferenze episcopali, per conoscere i pareri di riforma nella dinamica della sinodalità. Sono già arrivati molti documenti ottenuti dai membri della commissione e ce li stiamo scambiando. Avremo una prima riunione ufficiale l’1, il 2 e il 3 ottobre. E lì si esamineranno alcuni modelli. Non credo che ne uscirà qualcosa di definitivo, perché la riforma della Curia è molto seria. Vedo le proposte: se sono proposte molto serie, vanno maturate. Calcolo che dovremo fare altre due o tre riunioni prima che ci sia qualche riforma. D’altro canto, i teologi dicono — non so se nel Medioevo — in latino: Ecclesia semper reformanda, «La Chiesa sempre si deve riformare». Altrimenti resta indietro. Questo non solo per gli scandali di Vatileaks, che tutti conoscono, ma perché la Chiesa si deve sempre riformare. Ci sono cose che servivano nel secolo scorso, che servivano per altre epoche, per altri punti di vista, che ora non servono più, e che bisogna riadattare. La Chiesa è dinamica e risponde alle cose della vita. Tutto ciò è stato chiesto nelle riunioni dei Cardinali prima del conclave. Se ne è parlato molto chiaramente, sono state fatte proposte molto chiare e concrete. Seguiremo questa linea.

Ha risposto molto bene, in modo esaustivo. Vorrei sapere qual è il suo messaggio ai giovani brasiliani. Il suo messaggio giunge in un momento in cui i giovani sono nelle strade del Brasile, per protestare e mostrare la loro insoddisfazione in modo molto forte. Vorrei sapere qual è il messaggio per questi giovani.

In primo luogo devo dire chiaramente che non conosco i motivi delle proteste dei giovani. Allora se dico qualcosa senza chiarire questo, faccio del male, faccio del male a tutti, perché do un’opinione senza conoscere i fatti. Con tutta franchezza le dico: non conosco bene perché i giovani stanno protestando. Secondo punto: un giovane che non protesta non mi piace. Perché il giovane ha l’illusione dell’utopia, e l’utopia non è sempre negativa. L’utopia è respirare e guardare avanti. Un giovane ha più freschezza, meno esperienza della vita, è vero. A volte l’esperienza della vita ci frena. Ma ha più freschezza per dire le sue cose. Un giovane è fondamentalmente un anticonformista. È questo è molto bello! È qualcosa che tutti i giovani hanno in comune. Io direi, in generale, che bisogna ascoltare i giovani, dare loro spazio ed espressione, e prendersi cura di loro perché non vengano manipolati. Poiché così come esiste la tratta di persone — il lavoro schiavo, tante forme di tratta di persone — io oserei dire una cosa, senza offendere: ci sono persone che mirano alla tratta dei giovani, manipolando questa speranza, questo anticonformismo. E così rovinano la vita dei giovani. Perciò attenzione alla manipolazione dei giovani. I giovani vanno sempre ascoltati.. Attenzione. Una famiglia, un padre, una madre che non ascoltano il figlio giovane, lo isolano, generano tristezza nel suo animo e non si arricchiscono. I giovani hanno sempre ricchezza, chiaramente con inesperienza. Ma bisogna sempre ascoltarli. E difenderli da manipolazioni strane, di tipo ideologico, sociologico. Bisogna ascoltarli e dare loro uno spazio di ascolto. Questo mi porta a un’altra problematica, che oggi, in un certo modo, ho illustrato nella cattedrale, nell’incontro con il gruppo argentino. A un gruppo di ambasciatori che erano venuti a presentarmi le lettere credenziali, ho detto che il mondo attuale in cui viviamo è caduto nella feroce idolatria del denaro. E si crea una politica mondiale, molto caratterizzata dal protagonismo del denaro. A comandare oggi sono i soldi. Ciò significa una politica mondiale di tipo economicista, senza un’etica che la controlli, un economicismo autosufficiente e che organizza l’appartenenza sociale secondo questa convenienza. Che accade allora? Quando regna questo mondo della feroce idolatria del denaro, ci si concentra molto sul centro. E le punte della società, gli estremi vengono trascurati, non vengono curati, sono scartati. Finora abbiamo visto chiaramente come vengono scartati gli anziani. C’è tutta una filosofia per scartare l’anziano. Non serve. Non produce. Anche il giovane non produce molto, perché è un potenziale che dev’essere formato. Ora s
tiamo vendendo che l’altra punta, quella dei giovani, sta per essere scartata. L’alta percentuale di disoccupazione giovanile in Europa è allarmante. Non elenco i Paesi dell’Europa, ma faccio due esempi sulla disoccupazione di due Paesi ricchi dell’Europa, seri. In uno l’indice della disoccupazione è del 25 per cento di disoccupazione generale. Ma in questo stesso Paese, l’indice della disoccupazione giovanile è del 43 o 44 per cento. Il 43 o 44 per cento dei giovani di questo Paese sono disoccupati. Un altro Paese ha un indice di oltre il 30 per cento di disoccupazione generale; la disoccupazione dei giovani ha già superato il 50 per cento. Siamo di fronte a un fenomeno di giovani “scartati”. Allora, per sostenere questo modello politico mondiale, scartiamo gli estremi. Curiosamente, quelli che sono promessa per il futuro, perché il futuro ce lo daranno i giovani, perché lo porteranno avanti, e gli anziani, che devono trasferire la loro saggezza ai giovani. Scartando entrambi, il mondo crolla. Non so se mi sono spiegato bene. Manca un’etica umanista in tutto il mondo: sto parlando di un problema a livello mondiale. Oggi ci sono bambini che non hanno da mangiare nel mondo, bambini che muoiono di fame, di sottoalimentazione; basta vedere le fotografie di alcuni luoghi del mondo. Ci sono malati che non hanno accesso al sistema sanitario. Ci sono uomini e donne mendicanti che muoiono di freddo in inverno. Ci sono bambini che non ricevono un’educazione. Tutto ciò non fa notizia. Perdono tre o quattro punti le borse di alcune capitali ed è una grande catastrofe mondiale. Mi capisce? Questo è il dramma di questo umanesimo disumano che stiamo vivendo. Perciò occorre recuperare gli estremi — i bambini e i giovani — e non cadere in una globalizzazione dell’indifferenza rispetto a questi due estremi che sono il futuro di un popolo. Mi scusi se mi sono dilungato e ho parlato troppo. Ma con questo le ho dato il mio punto di vista. Cosa sta accadendo con i giovani del Brasile, non lo so. Ma, per favore, non manipolateli, ascoltateli, perché si tratta di un fenomeno mondiale, che va molto al di là del Brasile. 

Molto interessante. È un pensiero molto profondo. Vorrei farle un’ultima domanda. Qual è il messaggio, quello che lei direbbe ai brasiliani cattolici ma anche ai brasiliani che non sono cattolici, ossia, di altre religioni. Per esempio, domenica è venuto qui il rabbino Skorka, suo amico di Buenos Aires. Qual è il messaggio che lascerebbe a un Paese come il Brasile? 

Credo che occorra promuovere una cultura dell’incontro, in tutto il mondo, di modo che ognuno senta la necessità di dare all’umanità i valori etici di cui essa ha oggi bisogno e di difendere questa realtà umana. Su questo punto ritengo sia importante che tutti lavoriamo per gli altri. Potare l’egoismo: un lavoro per gli altri secondo i valori della propria fede. Ogni confessione ha le sue credenze, ma, secondo i valori della propria fede, deve lavorare per il prossimo. E dobbiamo incontrarci tutti per lavorare per gli altri. Se c’è un bambino che ha fame e che non riceve un’educazione, quello che deve interessarci è che smetta di aver fame e riceva un’educazione. Non importa se a dargli questa educazione sono i cattolici, i protestanti, gli ortodossi o gli ebrei. Non m’interessa. M’interessa che l’educhino e lo sfamino. Su questo dobbiamo metterci d’accordo. Oggi l’urgenza è tale che non possiamo litigare tra di noi, a discapito degli altri. Dobbiamo prima lavorare per il prossimo, poi parlare di noi, in modo profondo, dando ragione ciascuno della propria fede, cercando di capirci, certo. Ma oggi è urgente soprattutto la vicinanza, l’uscire da se stessi per risolvere i terribili problemi mondiali esistenti. Credo che le religioni, le diverse confessioni — mi piace di più parlare di diverse confessioni — non possono andare a dormire tranquille finché ci sarà anche un solo bambino che muore di fame, un solo bambino senza educazione, un solo giovane o anziano senza un’assistenza medica. Ma il lavoro delle religioni, delle confessioni, non è beneficenza. È vero. Per lo meno nella nostra fede cattolica, nella nostra fede cristiana, saremo giudicati per queste opere di misericordia.

L’Osservatore Romano, 1° agosto 2013

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