separateurCreated with Sketch.

“A credere s’impara credendo”

whatsappfacebooktwitter-xemailnative
mons. Bruno Forte - pubblicato il 31/07/13
whatsappfacebooktwitter-xemailnative

Un commento alla prima lettera enciclica di papa Francesco “Lumen fidei”(Il Sole 24 Ore, Sabato 6 Luglio 2013)

La prima lettera enciclica di Papa Francesco, dedicata al tema della fede, s’intitola Lumen fidei, “la luce della fede” (datata 29 Giugno 2013). L’Enciclica è indirizzata “ai vescovi, ai presbiteri, ai diaconi, alle persone consacrate e a tutti i fedeli laici”. Colpisce nell’indicazione dei destinatari la mancanza di un’espressione che si trovava ad esempio nell’intestazione della Caritas in veritate di Benedetto XVI e in altre lettere (anche se non nella due precedenti encicliche del Papa emerito): “e a tutti gli uomini di buona volontà”. Quest’assenza non sta a indicare una chiusura nei confronti di coloro che non hanno il dono della fede, ma vuol evidenziare onestamente che un discorso sulla fede è comprensibile e fecondo solo se di essa si ha una qualche esperienza, in forma di vissuto credente o almeno di desiderio e di ricerca. Al tempo stesso, l’assenza indica il rispetto e la delicatezza che Papa Francesco mostra nei confronti di quanti non credono e ai quali la fede può essere solo proposta, mai imposta. A credere s’impara credendo, nell’esercizio pieno della libertà e nel rischio dell’amore! Il Dio della fede non è l’oggetto di una dimostrazione matematica o di una prova scientifica legata a ciò che si vede: nell’atto di credere, il “cogito ergo sum” di René Descartes – “penso, dunque sono” – cede il posto al “cogitor ergo sum” – “sono pensato, dunque sono” – e ancor più all’ “amor, ergo sum” – “ci sono, perché sono amato”. Quando si parla di fede bisogna capovolgere l’ordine consueto della ricerca: l’oggetto deve divenire soggetto e il soggetto deve accettare di lasciarsi interrogare, sfidare, turbare, dalla sovranità e dalla trascendenza dell’Oggetto puro (come lo chiamava il grande teologo evangelico Karl Barth), che è il Dio vivente.

La fede – esordisce l’Enciclica – è luce: “Chi crede, vede; vede con una luce che illumina tutto il percorso della strada, perché viene a noi da Cristo risorto, stella mattutina che non tramonta” (n. 1). Non si tratta, dunque, di una luce di questo mondo, paragonabile al sole che illumina ogni cosa, ma non arriva a scrutare le profondità dei cuori e gli abissi misteriosi del reale: la luce della fede viene da altrove, dall’alto di Dio, che nel Suo Figlio incarnato è venuto a illuminare le nostre tenebre perché – raggiunti da questo “lumen” – gli uomini vedessero oltre il buio della morte e aprissero così il cuore alla speranza dell’eternità, non come vaga attesa, ma come sicura promessa. Per una simile luce si può vivere e morire, dando senso alle opere e ai giorni, mentre “per la fede nel sole non si è mai visto nessuno pronto a morire”, come affermava già un martire del II secolo, Giustino. Ad alcuni la luce della fede può sembrare un’illusione, una luce “consolatoria”: essa appagherebbe il desiderio profondo del cuore di spiegare in maniera pacificante il mistero della morte, l’insopportabile interruzione rappresentata dal suo silenzio senza ritorno. L’Enciclica richiama quest’obiezione e lo fa citando una delle voci più autorevoli del dramma dell’umanesimo ateo, Friederich Nietzsche, per il quale “il credere si opporrebbe al cercare” (n. 2). La vita umana verrebbe così privata di “novità e di avventura” e l’intelligenza condannata ad assopirsi in un tranquillizzante letargo. Sul filo di questo ragionamento, si deduceva che la ragione è chiamata a occupare ogni spazio del reale, mentre la fede sarebbe destinata a riservarsi soltanto le ombre, quei domini del vuoto e dell’irraggiungibile, cui il vero conoscere finisce col rinunciare: “La fede è stata intesa allora come un salto nel vuoto che compiamo per mancanza di luce, spinti da un sentimento cieco; o come una luce soggettiva, capace forse di riscaldare il cuore, di portare una consolazione privata, ma che non può proporsi agli altri come luce oggettiva e comune per rischiarare il cammino” (n. 3).

La ragione si muoverebbe negli spazi luminosi dell’intelligibile, la fede su quelli numinosi dell’emozione, passando comunque attraverso la pietra d’inciampo dell’inevidenza. La parabola della modernità ha dimostrato che le cose non stanno così: “Poco a poco si è visto che la luce della ragione autonoma non riesce a illuminare abbastanza il futuro; alla fine, esso resta nella sua oscurità e lascia l’uomo nella paura dell’ignoto” (ib.). Come Benedetto XVI, così Papa Francesco non fa sconti alle presunzioni dell’ideologia moderna: ne richiama con lucidità le aporie; indica senza tentennamenti i “sentieri interrotti” di una pretesa – quella dei Lumi – che voleva dominare ogni cosa e ha anche raggiunto significative conquiste, ma che ha non di meno prodotto inaudite violenze, di cui il “secolo breve” – il Novecento “stretto” fra le due guerre mondiali e le crisi dei totalitarismi – è stato pieno.

Altra è la luce della fede: essa non è frutto di carne e di sangue, non nasce dalle nostre capacità o dai nostri bisogni. La fede non è proiezione del desiderio, arsura dell’anima che cerca di dissetarsi alla facile consolazione di un sogno. “La fede nasce nell’incontro con il Dio vivente, che ci chiama e ci svela il suo amore, un amore che ci precede e su cui possiamo poggiare per essere saldi e costruire la vita. Trasformati da questo amore riceviamo occhi nuovi, sperimentiamo che in esso c’è una grande promessa di pienezza e si apre a noi lo sguardo del futuro” (n. 4). La fede si genera nell’arco di fiamma di una vera alterità, nella relazione all’Altro che viene a noi, e non unicamente di qualcosa che diviene in noi. E che questo rapporto non sia illusione, ma lotta, consegna e umile abbandono alla Presenza reale e misteriosa del Dio che viene, sta a provarlo ogni autentica esperienza di fede, anche se è sempre necessario purificare e ravvivare la fede dei credenti, liberandola da ogni forma di vuota consolazione o di ingenua rassicurazione, per nutrirla alle sorgenti della rivelazione divina, che la Chiesa custodisce e trasmette. In questa luce, Papa Francesco rilegge anche il più grande evento ecclesiale del XX secolo, il Concilio Vaticano II, di cui abbiamo da poco celebrato il cinquantesimo anniversario dall’apertura: esso “è stato un Concilio sulla fede, in quanto ci ha invitato a rimettere al centro della nostra vita ecclesiale e personale il primato di Dio in Cristo… Il Concilio Vaticano II ha fatto brillare la fede all’interno dell’esperienza umana, percorrendo così le vie dell’uomo contemporaneo. In questo modo è apparso come la fede arricchisce l’esistenza umana in tutte le sue dimensioni” (n. 6). In questa chiave di lettura del magistero conciliare, il Papa venuto “quasi dalla fine del mondo” si riconosce in piena sintonia col suo Predecessore, e non esita a presentare le riflessioni stesse della sua Enciclica come frutto di un lavoro “a quattro mani”, nel quale ha ripreso ciò che Benedetto aveva iniziato e lo ha completato e integrato senza fatica, per una sorta di avvertita e profonda armonia intellettuale e spirituale.

È a partire da queste premesse che la lettera Lumen fidei sviluppa in maniera organica la riflessione sulla fede, percorrendo quattro tappe, altrettanti registri dell’unico messaggio che intende proporre: nel primo capitolo, intitolato “Abbiamo creduto all’amore” (cf 1 Gv 4,16), il Vescovo di Roma fa una sorta di “storia della fede”, dalla chiamata rivolta ad Abramo e dall’inaudita novità del suo fidarsi perdutamente di Dio, anche di fronte alla richiesta di sacrificare il suo Isacco, alla fede di Israele, nutrita di ascolto e di speranza, fino alla pienezza della fede cristiana, nella sua valenza di salvezza ricevuta in dono, condivisa nella necessaria “forma ecclesiale”. Nel secondo capitolo – che ha come titolo “Se non crederete, non comprenderete” (cf. Is 7,9) – viene approfondito il rapporto fra fede, verità e amore, che vive di una conoscenza frutto di ascolto e di visione. In questa luce, il dialogo tra fede e ragione s’illumina di tutta la sua fecondità, e la fede non solo non esclude, ma suppone e alimenta la continua ricerca di Dio. Voce di questo pensiero della fede è in forma significativa la teologia, che si nutre della fede e a sua volta la nutre. Nel terzo capitolo – intitolato “Vi trasmetto quello che ho ricevuto” (cf. 1 Cor 15,3) – Papa Francesco approfondisce la natura ecclesiale della fede, presentando la Chiesa come “ madre della nostra fede”, e soffermandosi sul rapporto fra i sacramenti, la preghiera, la vita morale e la fede. Infine, nel quarto capitolo – che ha come titolo una formula ispirata alla Lettera agli Ebrei: “Dio prepara per loro una città” (cf. Eb 11,16) – la riflessione è portata sulle “ricadute sociali” della fede, analizzando il rapporto fra fede e bene comune, fede e famiglia, fede e vita in società, fede e sofferenza. L’icona finale dell’Enciclica presenta Maria, donna della fede, non a caso salutata nel Vangelo come colei che è beata perché ha creduto (cf. Lc 1,45). Un impianto chiaro e lineare, quello della Lumen fidei, che merita di essere approfondito nei suoi snodi portanti. Un testo semplice e profondo, organico nel suo sviluppo e attento alla complessità degli aspetti dell’esperienza più ricca e umanizzante che si possa pensare: quella di credere nel Dio Amore, di giocare la vita con Lui e per Lui, sapendo che proprio così essa non è meno ma più bella, non meno, ma più umana, non meno, ma più autenticamente vissuta al servizio di tutti, per il bene di tutti, per la gloria dell’Eterno. Perché veramente, come insegnava Ireneo già nei primi secoli della fede cristiana, “gloria Dei vivens homo – vita autem hominis visio Dei”: “la gloria di Dio è l’uomo vivente – e la vita dell’uomo è la visione di Dio” (Adversus Haereses, IV, 20, 7). E Papa Francesco ne è così convinto, da non poter non proporre con amore e fiducia questo dono a tutti, luce e forza della sua intera vita e missione.

Top 10
See More