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Il rosario spiegato da un bambino africano

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Davide Maggiore - Vinonuovo.it - pubblicato il 30/07/13

Dalle baraccopoli del Kenya una domanda che spinge a riflettere sui segni cristiani e sul loro valore testimoniale

"Se è vero che sei cristiano, dov'è il tuo rosario?" A chiedermelo è un bambino di otto-dieci anni, che malgrado l'età già conosce la vita delle baraccopoli di Nairobi, e ora è tra i beneficiari di un progetto di recupero dei missionari comboniani, poco lontano dalla capitale kenyana.

Spiegare il significato e i modi della mia fede cattolica a volte non è facile neanche nella mia lingua madre, di fronte a persone di cui conosco le idee e con cui ho esperienze in comune. Figuriamoci in inglese, a un piccolo sconosciuto che vive in Africa! E in più, c'è la difficoltà data da quel particolare: il rosario, che qui i cattolici – effettivamente – portano spesso al collo.

Ecco, come spiegare a un bambino, sia pur cresciuto in baraccopoli, che il rosario, nella mia vita di cristiano, è finora entrato poco? E come potrei mai dirgli che, anzi, per molti anni l'ho considerato una pratica datata, tipica del 'cristianesimo dei nonni',  in fondo connessa in maniera molto tenue con la fede 'in sé'? Scelgo la via più facile, fingere di non aver capito. "Il rosario?", chiedo con tono curioso. E lui conferma: "Sì, il rosario. Qui tutti ne abbiamo uno, e tu?"

"L'ho lasciato a casa", rispondo, cercando di sembrare un po' sbadato. E, in effetti, non è neppure una bugia: sulla mia scrivania di Roma c'è una corona,  che mi è stata regalata anni fa da un francescano. Casualmente, all'indomani di una giornata di sconforto. Non ricordo quante volte l'ho usata, ma sta sul mio tavolo da lavoro appunto per ricordarmi di non disperare, mai. Al bambino questo non lo dico, ma preciso: "Io non lo indosso, perché si usa per pregare".

"Certo che si usa per pregare!", conferma lui, forse un po' sbalordito dalla mia apparente ottusità. E però insiste: i cristiani lo portano anche al collo, in fondo pure i sacerdoti hanno il crocifisso, no? "È vero", concludo a quel punto io, e gli sorrido. Perché grazie a quella sua infantile insistenza ho capito quale significato ha per lui indossarlo. Più o meno lo stesso che, per i miei nonni, aveva recitarlo. E – forse – anche di quella corona, inutilizzata ma visibile, sulla mia scrivania.

È un valore non soltanto di devozione, ma anche di testimonianza. Di memoria di quella rassicurazione dataci dal Maestro: "Io sono con voi, tutti i giorni, fino alla fine del mondo". Una presenza che è la sostanza vera del cristianesimo e che però spesso scivola in secondo piano rispetto alle forme.

È stato impossibile, allora, non pensare a quante volte, tra cristiani e anche tra cattolici, ci siamo divisi sul significato di un gesto, di una pratica, di un segno, di un discorso. E, soprattutto, tra retoriche della 'tradizione' e del 'cambiamento'. Dando forse – diversamente da quel bambino kenyano con la sua corona – troppa importanza alla differenza tra il 'vecchio' e il 'nuovo'. Che invece svanisce nell'ottica di quel 'sempre', promesso dal Vangelo.

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