Analizzando ulteriormente la questione, Lyotard rintraccia un periodo preciso della cesura, del taglio, della perdita di continuità con il passato, e lo individua proprio nel pessimismo derivato dalla crisi del sapere scientifico alla fine del XIX secolo: «di questo pessimismo si è nutrita la generazione viennese all’inizio del secolo: gli artisti, Musil, Kraus, Hofmannsthal, Loos, Schonberg, Broch, ma anche i filosofi Mach e Wittgenstein. Essi hanno indubbiamente portato il più lontano possibile la coscienza e la responsabilità teorica e artistica della delegittimazione»[3], e conclude affermando che «il lavoro del lutto è compiuto. Non è il caso di ricominciarlo»[4].Rintracciare, dunque, il momento di rottura e collegarlo a cause antecedenti, pone in campo la questione del ruolo delle arti, della loro natura, del loro statuto e quindi di conseguenza della peculiarità stessa dell’arte sacra all’interno del contesto contemporaneo. Se non si comprendono le dinamiche della delegittimazione operata dall’esterno sulle arti – in una prima fase dall’affermazione delle “scienze positive” e poi dalla loro successiva delegittimazione come vero sapere, che ha introdotto un endemico processo di scetticismo -, difficilmente si capiscono le dinamiche di mutamento accadute all’interno di esse. Infatti, come reazione, si pensò per prima cosa di offrire alle arti dei sistemi positivi, che la ponessero al riparo dalla “prima” delegittimazione: si sono così approfonditi gli aspetti “scientifici” tradizionalmente legati all’arte, quali l’ottica o la teoria della luce, nel tentativo di mantenere la pittura, se non nel novero delle scienze, almeno in quello delle arti intese come discipline con uno statuto particolare, capace ancora di una produzione veritativa. Poi, in seguito, delegittimate anche le scienze, si è eliminato ogni aspetto tecnico conoscitivo, veritativo, lasciando all’arte solo il campo del sentimento e dell’espressione dell’io.
C’è stato un momento, dunque, in cui, dopo la grande delegittimazione del sistema artistico avvenuta nel Decadentismo, dal Futurismo in poi, l’arte venne associata alle più dinamiche tecnologie emergenti, muovendosi in tutte le direzioni in maniera spasmodica e onnivora, come se, divenendo profeta del progresso tecnologico, il sistema artistico ottenesse la speranza di una nuova legittimazione; ma anche questa fase è stata superata con delusione, quando il mercato ha assorbito quanto rimaneva dell’operazione artistica. Quasi con unanimità, viene individuato nel 1973 e nell’azione di Andy Warhol l’inizio di questa fase di identificazione tra arte e mercato; così per esempio, sottolinea Arthur C. Danto. Mario Perniola evidenzia la peculiarità di questa operazione: «prima della Pop Art le opere nascevano come tali e solo successivamente diventavano merci di lusso, ora esse nascono già come prodotti di un mercato in cui circolano beni di lusso: la mercificazione è la loro essenza stessa»[5]. Le arti, dunque, negli ultimi cento anni, sono state spinte prima verso una deriva scientista, poi in una riserva intimista e nel contempo in quella tecnologista, per poi essere definitivamente vendute al mercato. Nella generalizzata crisi filosofica e culturale, il mercato è stato assunto come panacea di tutti i problemi sociali, politici, economici, e dunque anche artistici. Ma, come stiamo ormai constatando da anni, il mercato e le sue leggi non sono in grado, da sole, di legittimare il “mercato dell’arte”, né sono capaci di risolvere tutte le questioni sociali che esso stesso genera; la logica del puro profitto non è in grado in alcun modo di regolare alcunché, visto che i mali endemici della finanza si ripresentano costantemente, senza che nessuno abbia la forza di fermarli e di modificarli.
Tempo fa Benedetto XVI ha ribadito la diagnosi del problema e la relativa cura, ovvero che «“l’economia non funziona solo con una autoregolamentazione mercantile, ma ha bisogno di una ragione etica per funzionare per l’uomo”, e che nell’attuale crisi economica, si conferma “quanto è già apparso nella precedente grande crisi: che la dimensione etica non è una cosa esteriore ai problemi economici, ma una dimensione interiore e fondamentale”. L’economia, infatti, affermava ancora Benedetto XVI “funziona veramente bene solo se funziona in modo umano nel rispetto dell’altro con le diverse dimensioni: responsabilità per la propria Nazione e non solo per se stesso, responsabilità per il mondo”. E ancora “La nazione non sta in sé, anche l’Europa non sta in sé, ma è responsabile per l’intera umanità e deve pensare ad affrontare i problemi economici sempre in questa chiave di responsabilità anche per le altre parti del mondo, per quelle che soffrono hanno sete e fame e non hanno futuro”. Questa responsabilità implica anche il futuro. “Se i giovani di oggi non trovano prospettive nella loro vita anche il nostro oggi è sbagliato, è male”. “La Chiesa con la sua dottrina sociale, con la sua dottrina sulla responsabilità di Dio apre la capacità di rinunciare al massimo del profitto e di vedere le cose nella dimensione umanistica e religiosa, cioè essere l’uno per l’altro”»[6]. Ciò che vale per le scelte economiche, vale a maggior ragione per quelle culturali. Occorre raccogliere il messaggio del Papa emerito: ancora si può e si deve affermare che si sono compiute scelte sbagliate; c’è ancora lo spazio per una presa di coscienza critica nei confronti delle impostazioni fondamentali che la modernità ha imposto e che la postmodernità ha relativizzato. La questione artistica è solo una parte di un insieme in crisi, ma, a mio avviso, può anche divenire il luogo in cui cominciare ad elaborare il metodo per mettere in pratica l’uscita dalla crisi.
Per comprendere la questione contemporanea dell’arte sacra, è dunque necessario mettere ordine per riorganizzare innanzitutto una narrazione forte, che abbia l’audacia di voler essere vera; solo da analisi di questo tipo, si possono trarre ipotesi per soluzioni realmente concrete. Non si può ignorare la situazione sociologica nella quale ci troviamo, occorre prendere piena coscienza della cosiddetta situazione postmoderna, risalendo fin all’analisi della modernità.
Anche solo limitandoci al caso dell’arte, lo sforzo di trovare una soluzione è grandissimo. Si contrappongono due posizioni, tra loro spesso in tensione. Da una parte la necessità definitoria, che è propria di chi vuole trovare una soluzione percorribile stabile; dall’altra la rinuncia ad ogni definizione, propria di chi ritiene la post-modernità talmente flessibile, da non poter tollerare un sistema che per sua natura s’irrigidirebbe nel produrre un sistema o nel ri-proporre un sistema. Infatti, ciò che risulta indigesto alla contemporaneità post-moderna è proprio la possibilità di affermare o anche solo cercare una definizione. Per questo, come abbiamo più volte affermato, viviamo in un paradosso, che sembra descriversi come una “architettura impossibile” di quelle disegnate da Escher: la condizione in cui viviamo ha di fatto annullato ogni capacità definitoria bollandola come fonte di intolleranza e quindi causa di dissidio personale, sociale, politico, economico o culturale; tutto deve vivere “obbligatoriamente” tra le altre cose sullo stesso piano, annullando ogni diversità, ogni ben che minimo ostacolo alla possibile convivenza pacifica. Così, come nei disegni di Escher, ogni diverso piano è paradossalmente sullo stesso piano. Per questi motivi, la soluzione decostruttivista proposta da Derrida è divenuta per molti l’unica soluzione, per eliminare ogni conflitto o dissidio. Tale ideologia, nel campo delle arti, ha prodotto come risultato l’annullamento, l’annichilimento di ogni possibilità creativa del sistema originario, in una vera e propria poltiglia omogeinizzata, sempre uguale a se stessa e quindi decontestualizzata, ma capace di essere docile al mercato e quindi al marketing, in quanto indifferentemente “prodotto di consumo”.
Questo concetto di arte può essere quello cui si fa riferimento nella Sacrosanctum Concilium o nel Nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica o nel Compendio? Può il mercato dei beni di consumo essere l’orizzonte in cui far sbocciare il giardino dell’arte sacra, oppure abbiamo bisogno di dissodare un terreno favorevole, un campo che si sia conservato intatto o poco danneggiato, un luogo dove trovare una piccola capanna piena ancora di attrezzi umili, ma utili, un tugurium in cocurbitacea preservato dalla devastazione? Forse il nostro compito è quello di preparare quel terreno con quanto si è conservato in quella piccola capanna, e irrorarlo con la fede, attendendo che venga fecondato dallo Spirito.
1) Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna, Milano 1981, pag.70 5) Mario Perniola, La società dei simulacri, Cappelli, Bologna 1983, pag. 136 6) La lezione della crisi economica, secondo il Papa: responsabilità. Non solo nazionale e mondiale, ma anche nei confronti del futuro, in www.Zenit.org, 18.08.2011.