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Papa Francesco e Benedetto XVI: non è uno scandalo un’enciclica a 4 mani

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Chiara Santomiero - pubblicato il 09/07/13

La Lumen fidei al setaccio della stampa laica: bene comune, critica del relativismo, etica politica, nuovi modelli di sviluppo, alcuni dei temi evidenziati

“Lumen fidei, l’enciclica di Ratzinger (e Bergoglio)” (Il Manifesto, 6 luglio); “La verità (Benedetto) spiegata dalla misericordia (Francesco)” (l’Unità, 6 luglio); “Non è uno scandalo che sia stata scritta a quattro mani” (Europa, 6 luglio): l’attenzione della stampa non solo laica si è appuntata, come inevitabile, sulla paternità “congiunta” di Benedetto XVI e Francesco per la prima enciclica firmata da quest’ultimo ma che completa, per sua stessa ammissione, la prima stesura prodotta dal papa emerito.
Una “co-produzione” che non deve destare particolari problemi secondo il giudizio di Agostino Giovagnoli (Europa, 6 luglio) per il quale non è una novità che un’enciclica sia preparata in gran parte da uno o più esperti e “conta chi è il papa che la firma”.

L’elemento d’eccezione è rappresentato piuttosto dalla “persona dell’esperto, non solo un grande teologo, ma anche un papa emerito” mentre “ancora più eccezionale è la pubblicità data da Papa Francesco al ruolo svolto da questo singolare esperto nella stesura dell’enciclica”. E se qualche collaboratore del pontefice ha “cercato di sfumare il contributo del papa emerito per proteggere il papa regnante da sgradite conseguenze di un’eccessiva sincerità” in realtà, secondo Giovagnoli non c’è nulla di male a riconoscere che si tratta di un’enciclica a ‘quattro mani’”. “La sincerità di Francesco – afferma l’editorialista – oltre a confermarne una statura umana e morale fuori dal comune, manifesta infatti l’ottimo rapporto tra i due e conferma la gestione felice, da parte di entrambi, di un passaggio storico straordinario e non privo di problemi”.

L’impronta del papa emerito appare molto evidente a Luca Kocci (Il Manifesto, 6 luglio) soprattutto nei primi tre capitoli sui quattro complessivi dell’enciclica dove “compaiono tipicitemi ratzingeriani, dalla critica al «relativismo» del mondo moderno che rifiuta la «verità», alla riproposizione del valore non negoziabile della famiglia fondata sul matrimonio fra uomo e donna”. Solo nel quarto capitolo, secondo Kocci “emerge qualche elemento maggiormente riconducibile a Bergoglio, come il ruolo dei credenti nella costruzione del bene comune, nel rispetto del creato e nell’elaborazione di modelli di sviluppo non fondati solo sul profitto”.

La tematica del bene comune a cui contribuisce la fede praticata e vissuta dei cristiani è centrale nell’insegnamento di Lumen Fidei per un altro editorialista de Il Manifesto, Alessandro Santagata, che ne analizza le ripercussioni sull’agire politico: “l’enciclica presenta la fede non solo come un dono, come un sostegno basato, attraverso la mediazione del Cristo, sulla Parola e sulla tradizione ecclesiale, ma anche come una forma di ermeneutica alternativa a quella secolarizzata (da Nietzsche al pensiero consumistico). È un passaggio fondamentale anche per le sue evidenti ricadute sul piano dell’etica politica”. In questa cornice si riscontrano, secondo il giornalista “da un lato, la battaglia che fu di Giovanni Paolo II e poi di Benedetto XVI contro «un relativismo, in cui la domanda sulla verità non interessa più», dall’altro, le aspirazioni sociali della chiesa, articolate da Benedetto XVI nella Caritas in veritate e più volte riprese nei discorsi di Bergoglio, per «modelli di sviluppo che non si basino solo sull’utilità e sul profitto, ma che considerino il creato come dono, di cui tutti siamo debitori»”. La continuità con la visione sociale di Benedetto XVI sembra un pò frenare il nuovo pontificato nel suo slancio “di riforma delle strutture della chiesa e di riscoperta della sua natura collettiva (la fede come «bene comune»), povera, popolare e anti-liberista”. Se le “cosiddette 'questioni non negoziabili' non vengono poste con la stessa durezza con le quali le sollevavano Wojtyla e Ratzinger” tuttavia sul piano della bioetica e della biopolitica, nel testo dell’enciclica, che si dimostra “soprattutto una riproposizione coerente del cattolicesimo contemporaneo” sembra mancare “quello sforzo al confronto positivo con i nodi ineludibili della secolarizzazione che ci si poteva attendere dalla prima enciclica di un papa che ha suscitato grandi aspettative”.

Sul concetto del contributo della fede alla costruzione del bene comune e della società terrena oltre che della città eterna torna Domenico Rosati (l’Unità, 6 luglio) per il quale “espresso in modo così netto, il concetto appare assai esigente”. “Asserire – scrive Rosati – che la fede (descritta nell’enciclica come segno d’amore e perciò portatrice di una verità non arrogante) si mette a disposizione del mondo per instaurarvi la giustizia e la pace, significa che quanti hanno il dono della fede debbono manifestarne gli effetti anche per chi non ne ha nell’impegno per edificare la società”. Di qui, conclude Rosati “la percezione della sfida dei credenti con se stessi, prima che con un mondo che non è da combattere ma da animare e umanizzare”.

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