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Dal lavoro alla giustizia, la moderna lezione di Maritain

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mons. Bruno Forte - pubblicato il 04/07/13

Il caso Ilva e il conflitto fra tutela ambientale e produzione

in “Il Sole 24 Ore” del 30 giugno 2013

«Distinguere per unire» è il titolo che Jacques Maritain diede al progetto di organizzazione dei saperi, da lui elaborato nella più poderosa delle sue opere (Distinguer pour unir: ou, Les degrés dusavoir, Paris 1932: ed. it. Morcelliana, Brescia 2012)
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L'intuizione che vi soggiaceva è che nella realtà tutto si tiene grazie alla forza unificante dell'essere nei suoi vari gradi e che riconoscere e promuovere i rapporti fra i diversi è la via più appropriata per la crescita di ciascuno e di tutti. Mi è tornata in mente quest'intuizione riflettendo sulle tensioni in atto nel nostro presente, in quest'Italia della crisi in cui più che mai la ricaduta pratica del progetto del grande pensatore francese mi parrebbe opportuna e feconda. Non ho potuto non pensare in particolare a due campi su cui la cronaca recente induce a soffermarci: quello del rapporto fra il lavoro, l'ambiente e la salute dei cittadini, da una parte; e quello della relazione fra l'amministrazione della giustizia e le espressioni della politica, dall'altra.

Il rapporto lavoro – ambiente – salute è stato ed è al centro della grande sfida rappresentata dalle condizioni di produzione dell'Ilva di Taranto: se il lavoro è un valore primario per la realizzazione della dignità della persona umana e per la serenità delle famiglie, lo è non di meno la salute dei cittadini. Tutelare l'occupazione per migliaia di lavoratori è urgenza imprescindibile, perché la perdita del lavoro o la sua precarietà producono insicurezza, sfiducia e svilimento della dignità delle persone interessate, con pesanti ricadute sui loro congiunti, specialmente più deboli. Non meno necessario è, però, salvaguardare l'ambiente e assicurare che le condizioni di vita di chi abita il territorio interessato dalle agenzie produttive non siano a rischio. La tensione non si risolve eliminando uno dei due termini con prese di posizione astratte e pregiudiziali: in questo senso il referendum cittadino sull'Ilva era semplicemente insostenibile ed è giustamente fallito. Distinguere per unire è, invece, ciò che è urgente e necessario, come ha mostrato più volte nei suoi interventi l'Arcivescovo di Taranto, Mons. Filippo Santoro, che così affermava in un recente messaggio: "Ho sempre alimentato la speranza di tutti i Tarantini sostenendo la difesa della salute, dell'ambiente e del lavoro". Ed aggiungeva: "Dai responsabili della politica nazionale ci aspettiamo segni tecnici e concreti che impegnino l'azienda ad una effettiva, vera e rigorosa opera di risanamento ambientale e che permettano la continuità del lavoro". E a proposito del referendum: "Preferisco ancora una volta leggere nei dati dell'astensionismo così come in quelli del voto effettivo, la volontà dei Tarantini di non voler contrapporre la salute al lavoro, ma di ricercare una soluzione che possa difenderli entrambi". Per l'Arcivescovo, "progettualità, tensione al bene comune e metodo salveranno Taranto. Partiamo dal concreto, prescindendo da qualsiasi posizione ideologica o foriera di divisione… Smettiamo di essere l'uno contro l'altro. Il problema non può essere risolto ignorando uno dei due elementi della questione, in questo caso il lavoro, ma cercando percorsi condivisi. Da questa situazione drammatica è possibile uscire trasformando quella che è una calamità in opportunità di riscatto del bene comune attraverso una concertazione positiva tra istituzioni e società civile".

Il caso Ilva non è il solo: proprio in questi giorni, nell'Arcidiocesi a me affidata, un caso analogo, anche se su scala molto più ridotta e con sfide meno drammatiche, mette a rischio numerosi posti di lavoro (si tratta della Laterlite di Lentella, azienda che produce argilla espansa, in provincia di Chieti). Anche qui il conflitto fra tutela ambientale e produzione non può essere risolto per decreto a favore di una tesi, senza cercare di distinguere per unire. La sfida alla politica come arte della mediazione, e la vigilanza critica dei due fronti in gioco, deve rendere vigili tutti, richiamando ognuno a sentirsi responsabile di soluzioni condivise a favore del bene comune.

L'altro campo di tensione su cui la cronaca di questi giorni richiama l'attenzione è quello del rapporto fra l'amministrazione della giustizia e la pratica politica: da una parte c'è chi parla di magistratura politicizzata, che vorrebbe a tutti i costi eliminare un protagonista della vita politica nazionale a colpi di sentenze; dall'altra, c'è chi si chiede perché la giustizia non debba fare il suo corso quando fossero accertate le responsabilità civili e penali di un qualunque cittadino italiano, anche se di spicco, in rapporto a reati compiuti, peraltro moralmente degradanti. Al presunto "fumus persecutionis" di alcuni magistrati alcuni vorrebbero contrapporre le barricate di un'intera parte politica, a tutela si dice non del singolo incriminato, ma di una più ampia e lungimirante concezione della giustizia, che dovrebbe tenersi lontana da ogni rischio di ricaduta politica strumentale. Anche qui, ciò che occorre mi sembra sia distinguere per unire: la separazione dei poteri dello Stato, sancita dalla nostra Costituzione, è già di per sé garanzia di questa distinzione necessaria; la presenza di tre gradi di giudizio tutela l'imparzialità della sentenza finale, consentendo all'imputato la più ampia possibilità di difesa e di dimostrazione della propria innocenza. Da parte sua, la classe politica non dovrebbe avere nulla da temere da una magistratura che si preoccupi di far rispettare la legge e di tutelare i più deboli: tacciare pregiudizialmente d'intento persecutorio o d'interesse strumentale alcuni magistrati non serve alla politica, che al contrario dovrebbe essere interessata unicamente al regolare svolgimento dei processi, all'accertamento rigoroso delle colpe e all'adeguatezza delle pene. Alla giustizia serve una classe politica che voglia promuovere al disopra di tutto il bene comune; alla politica serve una magistratura che sia scrupolosa nella tutela dei diritti e dei doveri dei cittadini, quali sono sanciti dalla Costituzione. La difesa delle istituzioni è interesse di tutte le istituzioni: una magistratura delegittimata farebbe soltanto da corrispettivo a una politica bollata "tout court" come immorale!

La passione di parte può accecare gli uni o gli altri dei protagonisti in gioco, ma non potrà mai dare serenità e certezza del diritto al Paese. Ciò che occorre è invece l'impegno etico di tutti a non scaldare gli animi e a testimoniare concreta fiducia nell'ordinamento giudiziario, così come concepito e tutelato dal nostro patto costituzionale, oltre che all'esercizio della politica, vissuto nei limiti rigorosi in forza dei quali esso non è preposto a promuovere gli interessi di un singolo o di un gruppo di potere, ma deve guardare al bene dell'insieme, alla difesa e alla crescita di tutti, specialmente dei più deboli. Chi non voglia o sappia distinguere per unire nel rapporto giustizia e politica, rischia di far degenerare l'una e l'altra e di danneggiare in maniera seria la convivenza civile e la tensione al bene comune, cui spetta il primato su ogni interesse di parte.

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