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Eremo di Gamogna, come entrare in un silenzio verde

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padre Renato Zilio - pubblicato il 25/06/13

Quasi un nido d’aquila. Emerge dai boschi soffici, estesi, di castagni rigogliosi dell’Appennino tosco-emiliano

Lo contemplo dall’alto. Da una delle tante cime che lo coronano tutt’intorno, segnata da una rustica croce in legno, a braccia aperte, immensa, consolatrice. L’antico eremo è appollaiato su un crinale, a mille metri di altezza, circondato, anzi protetto, come un tesoro. Quasi un nido d’aquila. Emerge dai boschi soffici, estesi, di castagni rigogliosi dell’Appennino tosco-emiliano. Il silenzio è perfetto, verdissimo. Il silenzio, infatti, prende il colore del luogo che lo accoglie e abbraccia intimamente, come in un unico corpo, lo spazio che lo sposa.

Prima di arrivare all’eremo, tutt’intorno, a rispettosa distanza, una scritta su legno in carattere elegante invita quasi con dolcezza: Entrate nel silenzio. Eremo di Gamogna. Fare silenzio è sempre un dolce invito. Non si può imporlo urlando, per non entrare in contraddizione. È un invito calmo, seducente perché è entrare in un regno: quello dell’ascolto. E il primo a mettersi in ascolto sarà proprio colui che invita gli altri a farlo. Viene da sorridere quando, fino a qualche anno fa, nell’abbandono dell’eremo, gli abitanti delle vallate vicine, cacciatori e camminatori, si ritrovavano qui per fare la loro allegra salsicciata: alla sommità del percorso di montagna. Ora, la convivialità ha ceduto il passo alla spiritualità, il momento gaudente alla memoria, cioè alla vita che queste pietre e queste cime hanno accompagnato per secoli. In fondo, il presente più vero è un tutt’uno con il suo passato. Non più passato, ma nascosto segretamente nelle pieghe del presente. Come gli strati geologici di questa montagna, che ora la sostengono, la strutturano e la rivelano quando si squarcia.

Questo luogo è un’altissima oasi dello spirito. Quasi mille anni fa, vi pregava un grande santo eremita. Il mio arrivo coincide con i Vespri; li cantiamo in una chiesa romanica, in pietra grigia di montagna, alta, dalle linee asciutte. La grande porta rimane aperta, mentre un vento forte di temporale scuote il fogliame dei boschi e fa sbattere un’enorme immagine, appesa all’esterno, di san Pier Damiani, nel suo millennio. Atmosfera oscura fuori, ma anche dentro, dove appare illuminato nel buio unicamente un Cristo ligneo, che pende dall’abside. Qualche icona. Il candelabro della menorah.

La preghiera avanza, tuttavia, solenne, melodiosa, accompagnata dal cadere precipitoso dell’acqua e da folate di vento tormentate. Splendida immagine simbolica della vita di san Pier Damiani: monaco, abate a Fonte Avellana, fondatore di quest’eremo, nel 1053. Poi cardinale, diplomatico inviato dal Papa a Milano, a Ravenna, a Faenza, per dirimere controversie o conflitti. In tempi difficili, una forza tranquilla di riforma. Parola e scritti fecondi e profondi, radicati nella preghiera e nella sete di deserto di qui. In tempi duri e tempestosi. A qualche passo dall’eremo, un cartello in legno, vicino al bosco, in bella calligrafia, recita: San Pier Damiani, dimmi una parola. Curioso modo di interpellare un santo che nacque precisamente mille anni fa, nel 1007. « Mille anni sono come il giorno di ieri che è passato…», riecheggia qui un salmo (89,4), cantato con gioia. E più avanti, un altro cartello, quasi in risposta: Beata colei che ha creduto (Lc 1,45). Per continuare è necessario inerpicarsi per un sentiero ripidissimo. Sì, la fede è un cammino in salita, con il fiato corto, dove resistenza e fiducia sono ingredienti indispensabili. Lo comprendi qui, salendo. Alla sommità, una splendida statua di Madonna sorridente col Bambino, seduta quasi sul vuoto del dirupo: altro aspetto che parla ancora della nostra fede di credenti. Costruire sul vuoto o, meglio, sul poco. Quale immagine più vera dell’opera di Dio?

Vivere in un eremo. Essere presente, così, in uno spazio circoscritto, ma immenso, costruito sulle montagne e sul loro segreto perenne: il silenzio. Nessuna parola fra di noi, un’apparente distanza ci separa, la presenza dell’altro scivola discreta accanto. Ci si ritrova unicamente al momento del pasto, in silenzio, quando si sono appena lanciati nell’aria alcuni tocchi precisi di campana. Vivere, così, in un antichissimo monastero come se si fosse l’unico abitante: ancora un miracolo di san Pier Damiani. In pieno deserto, fra verdissimi Appennini dove solitudine, pioggia, vento o sole erodono ogni aspetto fugace che appare nel corso dei tempi. Dove camminare per sentieri solitari è incontrare l’essenza delle cose, il valore di se stessi, degli uomini e di Dio.

Ma, in fondo, quest’eremo lo senti stranamente ancora abitato e avverti la presenza invisibile di una infinita processione: santi eremiti, pellegrini e penitenti. Si snoda lungo secoli interminabili di digiuno, di ascesi, di preghiera. Corteo immenso che coltivava quell’amore al creato, che ritrovi ancora qui, nelle pietre lavorate al cesello. Un amore ancora più grande per il Creatore, che impregna le oscure pareti della chiesa. E una passione per la semplicità, la bellezza, l’interiorità. A loro tutto serviva per affinarsi lentamente e in lunghissimi anni prepararsi all’incontro con Dio, trasformando questo monastero solitario in una lampada di spiritualità o in una città luminosa, posta sul monte. Come ricordandosi della sua storia, da poco tempo, essa è tornata a esserlo. Un cimitero piccolo e discreto accanto all’eremo, circondato da un alto muro, annerito, sbrecciato, si stende in fondo a un dolce avvallamento. Visto dall’alto, ti sembra di intuire la pietà di queste cime tutt’intorno, quasi piegate su di esso. Ed è per cullare con cura quello che resta di uomini costruiti dal silenzio e da una lunga preghiera. Soli e abbandonati all’Assoluto. In fondo, ne era il loro più profondo desiderio: riposare, un bel giorno, in pace. Respirare, finalmente, l’amore di Dio; raggiungere il mistero dell’essere umano e del suo Creatore. Ed è sempre stato vero: ciò che desideri più profondamente, un giorno, avverrà…

Ripenso, allora, alle prime parole del Libro di vita della Comunità monastica di Gerusalemme, nel cui eremo, quassù, sono ospitato: «Accogli con tutto te stesso l’amore che Dio ti dona per primo. Rimani sempre ancorato a questa certezza, la sola a dare senso, forza e gioia alla tua vita. Non si allontanerà mai da te il suo amore, non verrà mai meno la sua alleanza di pace con te. Egli ha impresso il tuo nome sulle palme delle sue mani». Parole che mi incamminano sulle orme di san Pier Damiani: «Se tutta la tua vita sarà un’accoglienza libera e gioiosa del suo amore, una ricerca laboriosa e paziente del suo volto, solo con il Solo, sarai come un figlio davanti a lui».

Un eremo fra i monti e', in fondo, un punto di osservazione solitario del creato. La natura selvaggia e grandiosa di qui, nel roteare instancabile del sole e della luna, si fa invito interiore a chi osserva a prendere coscienza in quale cosmico meccanismo, in quale solenne bellezza è incastonata l’esistenza di un essere umano. La tua. L’alzarsi e il discendere del sole qui parlano di fiducia e di coraggio incessanti. Si', nel nascere e nel morire. Ogni paura si dissolve, allora, nello sguardo immobile, libero e pieno di pace. A esso tutto educa quassù e ti immerge nell’eterno. Impercettibilmente.

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