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Lavoro minorile: un “furto di futuro” per tutta la società

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Chiara Santomiero - pubblicato il 11/06/13

In Italia sono 260 mila i minori di 16 anni che lavorano, 30 mila a rischio sfruttamento

Un dato paradossale ma vero: la crisi economica non ha sottratto spazio al lavoro minorile ma lo ha reso solo più precario, dequalificato e spesso pericoloso. In ogni caso senza prospettiva di crescita e di futuro. Proprio sul “furto di futuro” insiste l’indagine sul lavoro minorile in Italia “Game over" condotta dall’associazione Bruno Trentin e da Save the Children i cui dati preliminari sono stati diffusi l’11 giugno, in una conferenza stampa a Roma, alla vigilia della Giornata mondiale contro il lavoro minorile.

I minori al di sotto di 16 anni che lavorano in Italia sono oggi 260 mila, cioè il 5% della popolazione tra i 7 e i 15 anni. Al crescere dell’età aumenta la quota di chi fa un’esperienza di lavoro: se l’incidenza è minima prima degli 11 anni (0,3%), sale al 3% tra gli 11 e i 13 anni e si impenna con il 18,4% nella classe 14-15 anni. Per 100 ragazzi di 14-15 anni, quasi il 22% riferisce di aver fatto un’esperienza di lavoro dopo i 13 anni. Non è un dato senza significato. “Si tratta – ha spiegato Anna Teselli, ricercatrice della Bruno Trentin – della fascia d’età tra la scuola media e la scuola superiore, un passaggio difficile (in Italia c’è uno dei tassi di abbandono scolastico più elevati d’Europa: 18,2% contro una media Ue a 27 del 15%) nel quale si verifica il rischio maggiore di non procedere a una qualificazione professionale che determinerà in seguito il diventare lavoratori poveri adulti”.

Il lavoro precoce porta cioè a una condizione difficilmente reversibile per un individuo e quasi predestinata dalle culture familiari e territoriali di riferimento. Neanche a dirlo, infatti, il rischio più alto di lavoro minorile si concentra nelle province del sud d’Italia e delle isole maggiori, anche se non va sottavalutato il rischio esistente in alcune zone del centro-nord.

Il lavoro minorile non conosce differenze di genere: il 46% dei 14-15enni che lavorano sono femmine.Tre ragazzi su quattro lavorano nel circuito familiare, in piccole e piccolissime imprese, nelle quali il loro aiuto aiuta a contenere le spese soprattutto in tempi di crisi. “Non va sottovalutato un’altra forma del lavoro minorile – ha aggiunto Teselli – che è l’aiuto in casa non piccolo, che si traduce nella cura di fratellini o nonni per molte ore alla settimana in modo tale da impedire la frequenza scolastica o rendere molto difficile fare i compiti”. Oltre l’attività domestica, le esperienze di lavoro prevalenti riguardano il settore della ristorazione (18,7%) come barista, cameriere, aiuto cuoco; le attività di vendita (14,7%) come commesso e/o aiuto generico e attività in campagna.

Un ragazzo su quattro svolge attività regolari di lunga durata, da oltre sei mesi a un anno. Circa il 40% lavora qualche volta a settimana e una quota equivalente fino a 2 ore al giorno. Il 24% dei ragazzi, infine, lavora oltre 5 ore al giorno mentre il 26% più o meno tutti i giorni. Sono nell’area a rischio sfruttamento, cioè con lavoro dopo le 20.00 (proibito dalla legge) o che svolgono un lavoro continuativo che provoca l’interruzione della scuola oppure interferisce con lo studio o lascia poco spazio a divertimento o riposo oppure è moderatamente pericoloso, il 15% dei 14-15enni che oggi lavorano, cioè circa 30 mila ragazzi.

L’indagine è stata condotta con una metodologia quanti-qualitativa: all’indagine campionaria attraverso 2005 interviste a minori iscritti al biennio della secondaria superiore in 15 province italiane e 75 scuole campione, sono stati aggiunti focus group con operatori del settore e una ricerca tra pari che ha coinvolto un gruppo di minori in veste di ricercatori. Gli ultimi dati Istat sull’argomento risalgono al 2002.

“Trattandosi di un fenomeno non monitorato – ha sottolineato Katia Scannavini ricercatrice di Save the children Italia – il lavoro minorile si presta a semplificazioni mentre è una questione sociale fondamentale che ha una valenza trasversale che riguarda salute, istruzione, mercato del reddito”. Non esclusa la radice culturale e la considerazione del valore del lavoro. “Molto spesso le famiglie – ha proseguito Scannavini – vedono la possibilità di occuparsi come un fatto positivo per i ragazzi e non come un condizionamento per il loro futuro”.

La realtà invece è molto diversa: quasi mai i ragazzi imparano un lavoro e sono introdotti all’alfabeto del lavoro in un contesto fatto di rapporti di forza e dinamiche violente. D’altra parte, cresciuti spesso in luoghi dove l’illegalità e lo sfruttamento sono la norma, non si aspettano niente e si accontentano anche di 1 euro all’ora per fare il cameriere o il muratore, trasportando sacchi di cemento su impalcature senza protezione. La scuola è lontana, poco stimolante, poco flessibile e difficile da conciliare con la necessità del lavoro, anche se si volesse. Le difficoltà economiche della famiglia spingono i ragazzi a scegliere di dare una mano come possono.

Soprattutto non hanno sogni: la maggior parte dei giovani intervistati si accontenta di vivere alla giornata, senza speranze. In un video proiettato durante la presentazione dei dati, un ragazzo confessa il desiderio di avere una pasticceria con la quale poter mantenere una famiglia e non essere solo. Un desiderio di futuro che, aggiunge subito dopo tornando al dialetto napoletano, “come stamme mò, nun se vede proprio”. La traduzione è intuibile.

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