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Sulla luce naturale nelle chiese

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Rodolfo Papa - pubblicato il 31/05/13

Le chiese contemporanee utilizzano sistemi tecnologici di illuminazione e non hanno più alcun riferimento con la claritas, l’esigenza pratica ha cancellato l’interesse per la bellezza e per la verità

Leggendo e ascoltando commenti ad opere d’arte, ci si imbatte sempre in una componente essenziale della descrizione critica: la luce. Utilizzata in chiave tecnica o più raramente in chiave teorica, compare quasi sempre nella narrazione di alcuni periodi storici come il Gotico o nella descrizione di alcuni singoli artisti come Jan Van Eijk o Caravaggio. Sebbene sempre nominata, in realtà la luce non è affatto considerata in maniera sistematica in campo storiografico, come provocatoriamente ricorda Hans Sedlmayr, prendendo spunto da un’eclisse di luce realmente avvenuta nel 1842: «Alla storia dell’arte si pone d’ora in avanti il compito di considerare e studiare più attentamente un avvenimento che è senza dubbio fra i più importanti del secolo […]: la morte della luce. Questo – è ovvio – potrebbe realizzarsi soltanto nell’ambito di una storia della luce nell’arte (e non soltanto nell’arte) che comprenda tutte le epoche; si giungerebbe forse a constatare che una storia della luce porterebbe in evidenza fenomeni ancor più essenziali che non quella storia dello spazio che, da Riegl in poi, è divenuta il grande problema di fondo della storia dell’arte. … [a metà Ottocento] la luce subisce due metamorfosi epocali. Essa si secolarizza completamente nell’architettura in ferro e vetro dei palazzi di cristallo […], elevandosi a un significato metafisico-secolare. La qualità si trasforma ora in quantità; erompe una vera e propria sete di luce. […] questo deve richiamare alla nostra mente la sconfinata sete di luce che arde nell’uomo nel quale si sia spenta la luce interiore. Quest’uomo ha bisogno della pienezza della luce naturale e materiale proprio per surrogare quella mancanza, ha bisogno del culto della luce dei palazzi di cristallo, della pittura en plein air, della fotografia, di una totale illuminazione delle case durante il giorno (spinta a un’intensità tale, da essere già oggi riconosciuta dannosa), del culto dei bagni di sole; ha bisogno di trasformare la notte in giorno, inventando nuove sorgenti luminose che rivaleggino col sole. Al tempo stesso, però, a cominciare dall’epoca di Cézanne, la luce viene inghiottita dal colore» (Hans Sedlmayr, La morte della luce [1951], in La luce nelle sue manifestazioni artistiche, Palermo 2009, p. 61). 

A partire da queste considerazioni, potrebbero aprirsi infiniti campi di ricerca, ma, di fatto non sono stati percorsi, anzi, a partire dagli ’50 dello scorso secolo, per certi versi si è assistito ad un proseguimento degli studi sullo spazio e ad un approfondimento dello studio dell’ombra, ovvero del luogo in assenza di luce, come conferma perfino il famosissimo testo di Ernest GombrichThe Shadows del 1995. Inoltre, quanto Sedlmayer accenna riguardo allo spostamento dell’interesse dalla luce al colore, ovvero potremmo dire da una visione metafisica ad una materialista, è stato confermato negli sviluppi successivi, in campo artistico, teorico e storiografico. Il colore è stato svincolato dalla luce, reso elemento esclusivamente materiale, per certi versi antitetico proprio alla luce, senza la quale di fatto non potrebbe esistere. Ed anche la luce è stata ridotta a puro fenomeno elettrico. Prendendo, per esempio, in esame il libro di Philip BallColore. Una biografia [2001], che narrativamente racconta la storia del colore che, originandosi nel secondo Novecento, si sviluppa fino ai nostri giorni, notiamo la sottolineatura della volontà di produrre pigmenti sintetici, capaci da soli di essere l’unico cuore pulsante di tutta l’attività creativa, non solo in campo artistico, ma di fatto con ricadute in tutti i campi, a motivo della caratteristica, tipica della nostra epoca, di far muovere qualunque segno periferico, fino a farlo divenire agente consumistico globalizzato.

Ball così inizia il suo racconto: «Ritengo che in futuro si comincerà a dipingere quadri di un solo colore, e nient’altro. L’artista francese Yves Klein pronunciò questa frase nel 1954, prima di lanciarsi in un periodo monocromo, durante il quale ogni sua opera era composta da un’unica splendida tinta. Quest’avventura culminò nella collaborazione di Klein col rivenditore di colori parigino Edouard Adam nel 1956, alla ricerca di una nuova sfumatura di blu, tanto vibrante da sconcertare. Nel 1957 lanciò il suo manifesto con una mostra, Proclamazione dell’epoca blu, che presentava undici quadri dipinti con questo nuovo colore. Affermando che la pittura monocroma di Yves Klein era frutto dei progressi tecnologici della chimica, non intendo solo dire che il suo colore era un prodotto chimico moderno: l’intero concetto della sua arte era ispirato alla tecnologia. Klein non voleva soltanto esibire colore puro: voleva mettere in mostra la magnificenza del nuovo colore per goderne la consistenza materiale» (Philip Ball, Colore. Una biografia [2001], Milano 2004, pp.9-10). 

Le infinite gamme di tinte offerte dalle case produttrici sono ormai dominanti in ogni mercato, e sinuosamente e sensualmente pervadono ogni ambito, tuttavia rischiano di causare una immensa perdita culturale. Persino un insospettabile quale Manlio Brusatin, nell’introduzione alla sua memorabile Storia dei colori del 1983, scrive: «In questa breve storia [dei colori] si trova anche quanto appartiene all’aspetto materiale dei colori che è il modo della loro fabbricazione, del loro uso e fortuna fino al passaggio tragico all’età industriale: dalle tinte naturali soggette allo scolorire del tempo e al loro fantasma purpureo fino alla storia delle tinte chimiche tenaci, violente ed essenziali come veleni» (Manlio Brusatin, Storia dei colori, Torino 1983, pp. XI-XII).

Si tratta dell’analisi della perdita di un principio fondamentale e insostituibile per rappresentare la bellezza. Fin dai tempi antichi la luce è stata la metafora principale per narrare lo splendore della verità e della bellezza. In epoca cristiana, poi, la luce è divenuta il simbolo stesso della bellezza,che è di per sé verità illuminante e che quindi è capace di dire qualcosa sull’ineffabile mistero di Dio. La bellezza è proporzione, ovvero luogo numerico e geometrico di verità evidenti, ma è anche claritas ovvero splendore, luminosità, lucentezza, purezza illuminante. Tutta l’architettura, la pittura, la scultura e perfino la poesia erano costituite e impastate di claritas. Ogni singolo elemento delle infinite decorazioni scultoree delle cattedrali aveva il compito di catturare la luce e di riverberarla attorno a sé, in una cascata continua di luminosità discendente, capace di assolvere al compito di illuminare materialmente un luogo, senza perdere il valore simbolico morale e spirituale. Oggi, come sottolinea Sedlmayer, viviamo in un’epoca incapace di vivere e di sopportare la penombra, in una esposizione eccessiva alla luce, che crea un inquinamento luminoso dannoso, sia con costi di inquinamento ottico dannoso, sia con costi di produzione energetica, ma anche con infiniti danni psicologici e spirituali. Le chiese contemporanee utilizzano sistemi tecnologici di illuminazione e non hanno più alcun riferimento con la claritas, l’esigenza pratica ha cancellato l’interesse per la bellezza e per la verità. Accade così che tali chiese appaiono mute e cieche, forse perché si è troppo accettato ogni dettame consumistico contemporaneo, senza verificarne i costi non materiali. Ma il sacro è ben altro che industrial design.

(Pubblicato su ZENIT il 18 aprile 2011)

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