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Il revival come chiave interpretativa del contemporaneo

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Rodolfo Papa - pubblicato il 27/05/13

La finalità insita nell’arte cristiana implica l'eliminazione di ogni dimensione non autentica di revival: la pubblicità, la logica dei mass-media, il mercato

Che cosa significa “revival”? Il termine indica una ripresa, un ritorno, un rendere nuovamente e diversamente vivo qualcosa di lontano, generalmente qualcosa di lontano nel tempo. La forma maggiormente riconosciuta di revival è infatti quella diacronica. Si tratta, dunque, di ripresa di forme e modi e gusti di un’epoca passata, con riferimento specifico, ma non esclusivo, al mondo dell’arte, della moda, del costume.

Spesso i revival sono indotti e promossi per motivi di mercato, in quanto il motore sentimentale che i revival sanno innescare è sempre molto potente. Tuttavia, la stessa accensione del motore sentimentale desta interrogativi: evidentemente la rigenerazione di elementi passati si fonda su sintonie reali, su un reale rapporto tra ciò che è stato e ciò che è. Inoltre, il revival ha anche una dimensione originaria che è culturale, cioè nasce in movimenti artistici o in poetiche individuali, per precisi motivi di contenuto e di consonanza. A ben vedere, il revival dei gusti, motivato dal commercio, pur essendo ormai la forma più diffusa, tuttavia è solo una dimensione derivata e decaduta dei revival autentici. 

Sono esempi di revival sia la ripresa di abbigliamento e acconciatura degli anni ’60 e degli anni ’80, sia le varie forme di neoclassicismo che incontriamo nella storia. Per evitare di misconoscere il fenomeno, occorre porre delle distinzioni: diversa è la ripresa di qualcosa che si ha nella propria memoria personale, diversa è la ripresa di elementi in cui si vuole riconoscere un valore sempiterno; diversa è la dinamica di un movimento sostenuto e promosso dai mass-media, diversa è la dinamica che passa per la più sottile rete della comunicazione culturale interpersonale e del messaggio lasciato dalle opere. 

Inoltre, a ben riflettere, non esiste solo una dimensione diacronica del revival, ma anche una diatopica. Ovvero spesso vengono rigenerati e portati a vita diversa, anche elementi lontani non nel tempo, ma nello spazio. Si tratta di un movimento analogo a quello diacronico, in quanto vengono innestati in un contesto elementi esterni ad esso, con reciproca trasformazione. Infatti, il semplice “citazionismo” di elementi estranei non può essere detto revival; il revival implica la modificazione dell’elemento ripreso, una sorta di contaminazione con il tempo presente e, di contro, anche un effetto di trasformazione del contesto che accoglie il revival.

La finalità del revival diatopico è analoga a quella del revival diacronico, e come quella conosce una dimensione culturale e una commerciale, una sofisticata e una pop (ovvero popolare), ma diverso è il movimento su cui si innesta. Infatti, l’attrattiva verso usi e costumi che vengono “da fuori”, su cui si fondano i revival diatopici, è imparentata con l’esotismo e implica la complessa relazione con il diverso, piuttosto che la dinamica del passato. Esiste, però, anche una tipologia di revival sintetica, ovvero sia diacronica che diatopica, quando vengono ripresi e trasformati elementi passati di culture lontane. Si tratta di un fenomeno presente, per esempio, nelle avanguardie artistiche del Novecento, ma anche in movimenti artistici e culturali del XVIII e del XIX secolo.

Nipponismi, cinesismi, e orientalismi in genere, sono presenti in artisti come Ingres, Delacroix, Courbet, fino a Whistler e Van Gogh. A ben guardare anche il Neoclassicismo settecentesco esprime un amore non solo per l’arte antica, greca, romana o etrusca, ovvero per elementi lontani nel tempo, come avrebbero proposto Winckelmann, Mengs e Piranesi, ma comprende anche interesse e ripresa di culti diversi, fuori contesto, fino ad esprimersi in forme di neopaganesimo, come per esempio nella ripresa dei miti celtici entro l’epopea napoleonica. 

C’è, infine, un ultimo tipo di revival, che forse è il più complesso da percepire nel piano delle rivificazioni, perché di fatto propone una dinamica diversa. Si tratta del rendere vivo nel presente ciò che ancora non è stato, ovvero il futuro. Consiste in un revival di fatto utopico e ucronico, che riprende elementi senza luogo e senza tempo, come se li prelevasse da uno spazio-luogo reale che viene chiamato Futuro con l’iniziale maiuscola. La proposta di un modello che non è mai esistito trova forza proprio nell’offerta di una misura che non può essere misurata, perché esiste solo nella sua versione spostata e non già nel suo posto. La velocità estrema, il cemento al posto dei canali, il dominio acustico e cromatico dell’acciaio, si trovano nel Futurismo non già nel futuro. Si tratta di vere e proprie visioni di vario tipo: abbiamo un futurismo romantico come nelle visioni di Étienne-Louis Boullée e Claude-Nicolas Ledoux che nel Settecento indicano ciò che dovrà avvenire ma che ancora non è -e qui si incanala tutta la tradizione utopistica settecentesca, architettonica e non solo-; c’è anche una tipologia di visione letteraria, come quella di Jules Verne che nella sua epoca propone un mondo ancora impossibile, come in Viaggio al centro della terra (1864), Dalla terra alla luna (1865), Ventimila leghe sotto i mari (1870); infine c’è una modalità visionaria non romantica né letteraria, ma istituzionale: è nata, infatti, la figura del futurologo, quali sono per esempio Ian Pearson e Chris Winter[1], che sulla base di una ipotetica nuova scienza, appunto la futurologia, dicono ciò che dovrà accadere, come se così indicassero la strada da percorrere. In realtà, se ogni classicismo può e deve confrontarsi con un preciso tempo individuato come classico, se ogni nipponismo può e deve confrontarsi con qualcosa che è nipponico, invece ogni futurismo si confronta solo con se stesso e con le proprie proiezioni. Si tratta, dunque, di un meccanismo simile perché elementi estranei vengono portati in un contesto trasformandolo, ma nel contempo si tratta di un meccanismo diverso, perché tali elementi esistono solo in quel contesto. Si tratta di una ricerca di identità che trova la propria forza nel volersi alzare senza poggiare su una base. Questi pochi spunti di riflessione proposti potrebbero essere utili per una riflessione sull’arte cristiana. La finalità insita nell’arte cristiana implica che eliminiamo subito ogni dimensione non autentica di revival; la pubblicità, la logica dei mass-media, il mercato vengono – o dovrebbero essere – messi subito fuori gioco. 

Inoltre, il Cristianesimo introduce diverse e nuove chiavi di lettura e di significato. Per esempio, la dinamica dei tempi trova la propria ragione nella storia della salvezza, ed il passato si incarna in continuazione nel presente, dove già si realizza la certezza della Speranza ultima. Così come anche la relazione tra i luoghi va letta alla luce dell’annuncio universale della salvezza, che è portata a tutti, e dunque implica riflessioni serie sulla inculturazione e sulla missione. Il percorso di analisi dei vari revival nel contesto del Cristianesimo è lungo e complesso, ma mi sembra potrebbe recare un contributo importante. Vale la pena – certamente non adesso e non qui – di intraprenderlo.

 [Pubblicato su Zenit 11 luglio 2011]

1) Cfr. I. Pearson-C. Winter, Where’s It Going?, Thames & Hudson, New York 1999.

Tags:
arte contemporanea
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