Bagnasco ha celebrato i funerali del fondatore della Comunità di San Benedetto al Porto di Genova, che ha strappato tanti giovani alla droga e al malaffare
Sarà stato quel profilo acuminato, quel carattere ostentatamente burbero, il sorriso spalancato con l’inseparabile sigaro Toscano con non lasciava neanche quando mangiava. La forza delle parole mai gettate al vento. La mano ruvida nelle carezze. Per chi lo aveva conosciuto, era impossibile non provare una naturale simpatia per don Andrea Gallo, fondatore della Comunità di San Benedetto al Porto, che amava definirsi “prete di strada da sempre al fianco dei più deboli, degli emarginati, degli ultimi”.
Sicuramente è stato un testimone originale di Cristo e della Chiesa a tratti orgogliosamente anarchico, partigiano, avrebbe forse preferito sentir dire. Partigiano, sì, perché quando il fratello Dino tornò a casa dopo l’8 settembre del ’43 e, sotto la minaccia di essere richiamato o deportato, scelse la via della montagna per unirsi ai partigiani e lottare per liberare l’Italia, don Gallo, che allora aveva solo quindici anni e non capiva nulla della Resistenza, decise di seguire il fratello e prese “Nan” come nome di battaglia. Per questo amava cantare “Bella Ciao”, la canzone dei partigiani, nelle osterie e a volte anche alla fine della messa.
Come ha notato argutamente Pierfilippo Pozzi in “Dov’è Dio” (Einaudi), don Gallo è stato un prete veramente scandaloso, “ma in un senso del tutto diverso da quello che intendono i loro detrattori. Scandalo significa inciampo, è come una pietra poggiata per terra che, mentre uno guarda per aria distratto dalle delizie celesti, lo costringe a fermarsi per guardare dove ha messo il piede”.
Don Gallo aveva fatto sua la “direzione ostinata e contraria” dell’amico De Andrè, cantore degli ultimi, dei diseredati, degli sconfitti. Tanto che molte sue prese di posizione suonavano stonate quando non apertamente critiche verso il pensiero della Chiesa. Lui che veniva accusato di essere comunista e di fare politica più che di predicare il Vangelo. Lui che diceva: “se i preti avessero la possibilità di sposarsi, si ridurrebbe il problema del prete che non rispetta il voto di castità, che va con prostitute, della pedofilia”; che definiva l’omosessualità “un dono di Dio”; che sul profilattico invitava a “seguire l’astinenza in attesa del matrimonio” ma diceva al contempo “se i giovani fanno all’amore l’uso del profilattico è fondamentale”; che era favorevole al sacerdozio per le donne, al divorzio, all’eutanasia (“se regolamentata”).
“La mia gente di notte non ha un posto dove andare, così io dormo di giorno e sto sveglio fino all’alba nel mio archivio, tante volte volesse passare di là”. E lui, profeta degli sbandati e degli emarginati, si sentiva sempre interpellato dal Vangelo e chiosava così: “la risposta non può essere l’indifferenza che è l’ottavo peccato capitale”.
L’amico di tante battaglie, don Luigi Ciotti, lo ha ricordato in questo modo dalle pagine di Famiglia Cristiana: “Don Andrea Gallo ha rappresentato – nella sua vita lunga e generosa – la Chiesa che ‘amo’ e nella quale mi riconosco. La Chiesa che non dimentica la dottrina, ma non permette che diventi più importante dell’attenzione per gli ultimi, per i dimenticati. Andrea lo ricorderemo così: come una persona che ha dato un nome a chi non lo aveva o se lo era visto negare”.
Il migliore epitaffio rimane pur sempre quanto don Gallo diceva di se stesso: “Nella vita mi hanno apostrofato in ogni modo: chierico rosso, prete comunista, protettore dei tossici. Ma si sono dimenticati che sono anche amico delle prostitute, dei deviati, dei balordi, dei borderline, dei migranti, di tutti coloro che viaggiano ai margini della società. Un prete da marciapiede, insomma. E’ li che vivo, ogni giorno e ogni notte, cercando la speranza insieme alle persone che incontro. E’ lì che mi è stata insegnata la vita. Il posto di un prete è fra la gente: in chiesa, per strada, in fabbrica, a scuola, ovunque ci sia bisogno di lui, ovunque la gente soffra, lavori, si organizzi, lotti per i propri diritti e la propria dignità”.