L’ossessione al sex appeal dell’oggetto di consumo corrode dal di dentro questa corrente artistica, rendendola emblematica della cultura pop
Spesso capita di ascoltare discorsi o di leggere testi dove viene usato il termine “iperrealismo”, che però, invece di indicare qualcosa di preciso, è utilizzato come sinonimo di qualcos’altro. Per molti, infatti, tutta la realtà artistica figurativa si confonde e alla fine coincide con la particolare corrente iperrealista. Alcune volte, capita di incontrare articoli, saggi e testi, anche autorevolmente firmati, che estendono banalmente il termine a tutta l’arte figurativa anche a quella del passato, cosicché artisti rinascimentali o barocchi vengono fagocitati anacronisticamente dalla post-modernità. Confondere i piani e rendere indistinto ciò che è diverso, non solo è un tipico errore di chi poco conosce la storia dell’arte e poco comprende di teoria dell’arte e confonde termini e categorie storiografiche, ma è anche un topos teoretico del post-moderno. Anacronismi, riduzionismi e vortici caotici, se pure alle volte producono inattesi stimoli poetici, di fatto, in quanto incongruenze storiografiche, generano confusione.
In realtà, precisare i termini della questione non solo corregge un errore interpretativo e valutativo delle complesse dinamiche storiche entro le ancor più complesse questioni teoriche dell’arte, ma apre anche il discorso artistico ad ampie possibilità critiche. Invece, l’elaborazione di analisi in grado di riposare su giudizi critici sereni e avvertiti, è il compito primo di una seria storia dell’arte. La stessa questione dell’arte sacra è spesso lambita da queste problematiche storiografiche. Giacché taluni, anche negli ultimi tempi, hanno sostenuto, proprio nell’ambito delle arti al servizio del sacro, una maggiore capacità espressiva del sistema d’arte informale rispetto al sistema figurativo, contemporaneamente, però, confondono il figurativo con l’iperrealismo, per cui viene impostata una contrapposizione tra iperrealisti e informali, con preferenza dell’utilizzo di artisti informali per la decorazione di chiese rispetto agli altri “iperrealisti”.
Il termine “iperrealismo” si è venuto a confondere con tutto l’immenso arcipelago del “realismo” contemporaneo, addirittura, in una iperbole storiografica, con il ben più complesso sistema figurativo elaborato all’interno del cristianesimo nel corso dei secoli passati. Non solo l’utilizzo del termine è, dunque, ormai divenuto equivoco, perché non designa più la corrente, il movimento artistico, essendo divenuto sinonimo tout court di tutto l’immenso mondo figurativo, ma, in più, tutto il mondo figurativo risulta di conseguenza connotato da una accezione negativa; come se Jan Van Eyck, Caravaggio o Poussin fossero assimilabili ad artisti figurativi novecenteschi e avessero le stesse finalità e gli stessi ideali di questi ultimi. In questa confusione “stilistica”, si nasconde la difficoltà di riconoscere le sostanziali diversità tra un sistema ed un altro e di comprenderne le immense implicazioni teoretiche, filosofiche e teologiche. Inoltre, a ciò si aggiunge che la narrazione storiografica spesso pone tutto in una indistinta linea progressiva, mettendo in relazione di continuità artisti e correnti che condividono poco o nulla. Per esempio, lo scorso anno, in una mostra romana, in occasione del centenario caravaggesco, le opere del Merisi sono state messe a confronto con quelle di Francis Bacon (1909-1992): due universi paralleli, due sistemi artistici totalmente diversi, due visioni del mondo lontane tra loro anni luce, che hanno in comune probabilmente solo il fatto che si tratta di due artisti famosi, entrambi infine vittime di anacronismi e di riduzionismi, ridotti a stereotipi e resi complanari e simili. La sola analisi "stilistica" produce fraintendimenti devastanti se non viene supportata da una ermeneutica antropologico-culturale adeguata alla visione del mondo che ogni opera sottende e in ultima analisi non viene provata dalla capacità d’interpretazione della più completa disciplina storico artistica di cui siamo dotati, "l’iconologia contestuale". Ma se invece lo scopo di tali mostre è quello di affermare "ideologicamente" che tra un artista del XVII secolo cattolico e un artista ateo del XIX secolo non c’è alcuna differenza, allora è tutta un altra questione. Ma continuiamo ora a parlare del "nostro" movimento artistico.
Il termine “iperrealismo” ha subito una sorte assai strana: nato per identificare un gruppo, un preciso modo di intendere l’arte, si è trovato a svolgere la funzioni di contenitore generico in cui far ricadere, indistintamente, tutto. L’iperrealismo nasce negli Stati Uniti d’America alla fine degli anni ’60 in concomitanza con la Pop Art; non lo si può definire propriamente un movimento artistico, o perlomeno non ne ha le caratteristiche tipiche, in quanto ha più padri, molti seguaci e tanti continuatori. Gli artisti che ne fanno parte, o meglio che solitamente vengono radunati sotto questo “nome”, si dividono in due rami principali ovvero quelli che usano i pennelli e i colori e quindi producono dipinti, e quelli che invece realizzano figure tridimensionali attraverso nuovi materiali, come vetroresina, poliestere, resina sintetica, fibra di vetro o anche fibre naturali. Tra questi ultimi i più noti sono Duane Hanson, Ron Mueck e John De Andrea, che per realizzare le loro “sculture” iperrealiste partono direttamente dal calco dell’originale e procedono nella realizzazione di un doppio in tutto simile, capace di ingannare lo sguardo, come le statue di cera del museo londinese di Madame Tussauds.
Nel campo della pittura, invece, uno dei padri dell’iperrealismo èChuck Close che esordisce nel 1968, l’anno delle rivoluzioni studentesche, con la tela Grande autoritratto, costituendo di fatto il primo nucleo teorico del gruppo. Infatti egli, superando d’un balzo ogni critica negativa che nei decenni precedenti era stata fatta al realismo, definito inutile e superato dalla tecnologia della riproduzione meccanica della realtà, si riappropria dei mezzi pittorici e li mette a reagire proprio con gli antagonisti mezzi tecnologici. Egli, infatti, invece di distaccarsi dall’utilizzo di mezzi meccanici, come la macchina fotografica, ne esalta il valore e dipinge spingendone al massimo l’utilizzo. La pittura, in effetti, si era già avvalsa per gran parte dell’Ottocento dei risultati fotografici per ritrarre la realtà circostante, ma Close non ha come scopo di ritrarre il mondo, bensì le foto che ritraggono il mondo. La sua pittura, per tutti i quaranta anni successivi fin a nostri giorni, gareggia con gli effetti di stampa, con i retini tipografici prima e con i pixel poi. Il prodotto pittorico è in tal modo capace di gareggiare non solo con la macchina fotografica, ma anche con la stampa fotografica. Taluni, in senso critico, chiameranno questo movimento anche “fotorealismo”. Ma Close afferma che: «La macchina fotografica è obbiettiva. Quando si occupa di un viso, non fa distinzione tra naso e guancia. La macchina non sa che cosa sta osservando, riproduce tutto. Io voglio occuparmi di questa riproduzione in bianco e nero, che è bidimensionale e carica di particolari superficiali»[1].
Proprio questo carattere di apparente oggettività ricercato meccanicamente, la volontà di essere quasi passivo di fronte alla assenza di selezione degli elementi da ritrarre, la scelta di lavorare in bianco e nero e l’idea di realizzare ritratti in dimensioni molto superiori al reale, pone immediatamente questo artista in continuità con la coeva Pop Art. Se Andy Wahrol utilizza il multiplo come mezzo per esibire l’aspetto consumistico del prodotto artistico, Chuck Close utilizza il sovradimensionamento come mezzo straniante per parlare da un altro punto di vista della medesima società dei consumi. I temi trattati dagli iperrealisti si manterranno sempre in questo orizzonte oscillando tra una analisi del mondo dei consumi e una sua compiaciuta esaltazione, evidenziando di volta in volta alcuni aspetti particolari del complesso mondo contemporaneo.
Richard Estes, altro padre del gruppo, è invece attratto dalle cromie metalliche delle carrozzerie delle auto e delle motociclette, ed anche dagli arredamenti in acciaio dei fastfood come si può vedere nel suo Doppio autoritratto del 1976. Robert Cottingham diviene famoso per i suoi dipinti che ritraggono insegne luminose come F.W. dipinto nel 1975. Charles Bell esordisce nel 1973 con Gumball dipinto che ritrae il mondo delle macchine che distribuiscono palline di gomma da masticare. Audrey Flack invece, dipingendo nel 1974 Strawberry tart supreme, entra direttamente nel mondo dei consumi alimentari di massa, fatto di grassi in eccesso e di zucchero luccicante, e come Ralph Goings che ritrae le bottiglie di ketchup e le torte servite con il caffè nelle catene di ristoro, propone attraverso esse la metafora tutta statunitense della cultura on the road.
Robert Bechtle, invece, ritrae direttamente la famiglia media americana, composta da quattro persone – i genitori e due figli -, vive in una casetta con giardino che è la tipica balloon frame statunitense, con il cane e una enorme automobile familiare. Bechtle forse ha uno sguardo un po’ più ironico degli altri, ma di fatto rimane comunque positivamente affascinato dal “sogno americano”, seguendo probabilmente la scia del padre di tutti questi artisti pop degli anni settanta, ovvero il famosissimo Norman Rockwell, capace di uno sguardo acuto ma pur sempre condiscendente. Del resto Rockwell è colui che inventa letteralmente per la Coca Cola il testimonial più famoso del secolo, cioè Babbo Natale. È, quindi, difficile scindere l’aspetto critico da quello compiaciuto, il lato ironico da quello invece più propriamente consumistico di questi artisti. La difficoltà più grande di tale corrente artistica non è certo l’utilizzo del mezzo meccanico della fotografia, perché questo di per sé non è nient’altro che un mezzo tecnico legittimo. Già Leonardo nel XV secolo scriveva nel Libro di Pittura a proposito del “prospettografo”, una sorta di macchina per disegnare rapidamente le prospettive, che può far risparmiare fatica in chi sa già dipingere «ma questa tale invenzione è da essere vituperata in quelli che non sanno per sé ritrarre, né discorrere con l’ingegno loro» (I, 39).
La vera difficoltà della corrente dell’Iperrealismo risiede nella visione del mondo che sottende; essa, infatti, non ha nessuna volontà di distanziarsi dalla visione pop e consumistica che già la Pop Art ha totalmente abbracciato. Di fatto ci troviamo di fronte ad artisti che posseggono una maestria tecnica – questo è senz’altro l’aspetto positivo -, ma totalmente asservita ad una visione orizzontale, materialistica del mondo, come se fosse un grande Luna park, una Disneyland dei divertimenti piena di luci, scritte luminose, grandi poster pubblicitari e infiniti beni di consumo. L’ossessione al sex appeal [2] dell’oggetto di consumo corrode dal di dentro questa corrente artistica, rendendola emblematica della cultura pop, la limita nell’espressività fino a relegarla ad una dimensione cartellonistica pubblicitaria. Il vero limite dell’iperrealismo non è, dunque, come molti pensano, l’utilizzo del mezzo fotografico, ma il fatto che non c’è alcuna volontà di superarlo, di distaccarsene, di oltrepassare l’orizzonte della coseità dell’oggetto ritratto e di superare il suo smerigliato, luccicante e sfavillante possibile consumo.
[Pubblicato su Zenit l’19 settembre 2011]
1 ) K. Stremmel, Realismo, Taschen, Modena 2004, p.40
2 ) Cfr. M. Perniola, Il sex appeal dell’inorganico, Einaudi, Torino 2004.