È la prima vittima della mafia a essere beatificata come martire. A Palermo la celebrazione per il parroco di Brancaccio, assassinato il 15 settembre 1993 Il sorriso. Si ricordano quell’ultimo sorriso di don Pino Puglisi come fosse oggi. Salvatore Grigolo, che materialmente gli ha sparato alla nuca, e Gaspare Spatuzza, che in un gruppo di fuoco di 5 persone, ne fu il complice, non possono scordarlo. Era anche il giorno del compleanno della vittima, quel 15 settembre 1993. Nel suo memoriale, Gaspare Spatuzza, scrive anche di conservare un foglio con una frase di don Puglisi: “Nessun uomo è lontano dal Signore. Il Signore ama la libertà, non impone il suo amore. Non forza il cuore di nessuno di noi. Ogni cuore ha i suoi tempi che neppure noi riusciamo a comprendere. Lui bussa e sta alla porta. Quando il cuore è pronto, aprirà” (Credere, 24 maggio).
Pensavano di averlo ucciso. Di aver finalmente messo a tacere il nemico del boss Graviano. Ma oggi, dopo 20 anni, se lo trovano più vivo che mai. Il beato padre Pino Puglisi – “3P”, come lo chiamavano – è la prima vittima della mafia a essere elevata come martire all’onore degli altari, a poco meno di un anno dal decreto di papa Benedetto XVI che ne ha appunto riconosciuto il martirio. Alla celebrazione del Foro italico di Palermo, una folla di almeno 60 mila persone. Tanti gruppi delle parrocchie palermitane hanno vegliato dalla notte.
Tutti richiamati anche da quel sorriso, dalla stessa potente mitezza che ricordano coloro che hanno conosciuto 3P. “Tutto avrei immaginato per lui, meno che una morte violenta, perché era un uomo mite”, ricordava lo scorso anno, in occasione della promulgazione del decreto pontificio, mons. Michele Pennisi, da poco arcivescovo di Monreale. “Erano anni particolarmente difficili per Palermo” ma don Puglisi “non aveva la scorta, non partecipava a convegni antimafia”. Spiega Pennisi “non faceva antimafia in senso sociologico ma pastorale” perché “per lui la mafia in qualche modo contrastava con la pastorale della Chiesa, e combatterla per lui significava favorire la missione della Chiesa”. Anche per questo si è potuto stabilire che la sua uccisione è avvenuta in odium fidei, in odio alla fede, perché “la mafia in effetti ha ucciso don Puglisi perché riteneva la Chiesa un nemico da estirpare” (Tempi, 29 giugno 2012).
Tutto questo avviene mentre torna di stretta attualità, a pochi giorni dall’anniversario della strage di Capaci, la vicenda per nulla chiarita della cosiddetta trattativa Stato-Mafia. I magistrati che si stanno occupando dell’inchiesta sostengono che don Puglisi potrebbe essere anche stato “l'ennesima vittima del ricatto allo Stato lanciato a suon di bombe tra il ‘92 e il ‘93 da Cosa nostra per obbligare le istituzioni a ridimensionare il rigore carcerario contro i detenuti mafiosi” (Il Fatto Quotidiano, 24 maggio).
In ogni caso, la beatificazione del primo martire di mafia ha una portata straordinaria per la Chiesa, sembra un punto di non ritorno. Dopo l’anatema lanciato nel maggio 1993 da Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi pochi mesi prima dell’omicidio di Puglisi; dopo la svolta impressa da Benedetto XVI a un processo che sembrava rallentare, questa beatificazione significa che non è ammessa più alcuna tiepidezza pastorale, ma anche morale, nei confronti della mafia.
Scriveva lo scorso anno la palermitana Alessandra Turrisi che “quando un bambino del catechismo chiederà chi è questo beato Pino Puglisi e gli sarà risposto che era una sacerdote ucciso dalla mafia e per questo martire, capirà che forse quella stessa mafia che dà lavoro a suo padre e a suo zio, che viene rispettata dai vicini di casa e onorata dai suoi amici non è poi così buona e giusta” (Vinonuovo.it, 5 luglio 2012).