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Che cos’è l’arte povera?

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Rodolfo Papa - pubblicato il 23/05/13

Il linguaggio del feticcio e dell’archetipo possono essere utilizzati per dire Cristo?

Proseguiamo l’esposizione delle teorie artistiche di alcuni movimenti contemporanei, come già fatto in precedenza con il variegato gruppo degli Iperrealisti. Ci interessiamo ora dello storico gruppo denominato “Arte Povera”[1], nato anch’esso negli anni Sessanta del secolo scorso. Nel 1967, in Italia, lo storico dell’arte Germano Celant [2] attribuì il nome unitario di “Arte Povera” al composito gruppo di artisti quali Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Pier Paolo Calzolari, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Mario Merz, Marisa Merz, Giulio Paolini, Pino Pascali, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Emilio Prini e Gilberto Zorio. Ricollegandosi alle esperienze artistiche di Lucio Fontana e Alberto Burri, di un decennio più vecchie, il gruppo si mosse nel territorio del linguaggio e dell’espressività, abolendo ogni minima sopravvivenza di gerarchie di valori. Ricollegandosi alle grandi utopie delle avanguardie storiche del primo Novecento, come il Futurismo, il Dadaismo, l’Espressionismo, il Surrealismo, il Suprematismo …, il gruppo interpreta, in maniera spregiudicata, i dettami della nuova corrente alla moda: il Pop. Il Pop, dilagante in tutto l’Occidente da circa mezzo secolo, si manifesta in molteplici forme e in altrettanti contesti, ma con un minimo comune multiplo: la frammentazione del discorso linguistico e la sua deflagrazione in tanti sotto linguaggi di tipo tribale.

Potremmo dire che il veicolo linguistico della globalizzazione è l’ideologia Pop, che di fatto non tende alla creazione di un linguaggio unitario o universale, ma al contrario si identifica nella parcellizzazione, nelle frantumazione, nel tribalismo linguistico ovvero in un codice vissuto solo da pochi per il tempo che questi sono insieme. La visione Pop ha come linea di principio lo spontaneismo irriflesso: si è così come si è, e in tal modo ci si esprime. Anche nel gruppo dell’Arte Povera l’idea di fondo è una volontaria assenza di un discorso unitario. Si tratta di un gruppo che di fatto si caratterizza per la mancanza di un forma linguistica comune, anzi è “gruppo” proprio in ordine al principio che sono abolite le regole e che la forma è definitivamente aperta, priva quindi di un significato preesistente da veicolare attraverso il significante. La manualistica storicizza l’Arte Povera nei termini di indifferenza nei confronti del materiale e del significato: «Il termine “Arte Povera” nasce, in linea di massima, dall’uso di materiali poveri (raw materials verranno chiamati nei paesi anglosassoni) che potevano essere di qualsiasi tipo: vegetale, organico, minerale, fino ad una tecnologia minima (neon, nastri registrati, fotografie, videotapes ecc.), usata non come affermazione di valori della nostra civiltà, ma come strumento banale, quotidiano (si vedano le lampadine di Pistoletto o i neon di Merz)»[3].

Gillo Dorfles, nel suo ormai famosissimo Ultime tendenze nell’arte d’oggi, inscrive l’Arte Povera nel più ampio movimento dell’arte concettuale, offrendo una interessante riflessione: «quest’arte, che poi spesso è dai suoi adepti considerata non come “arte” ma come attività creativa sine materia, mostra legami assai profondi con tutto un filone del pensiero estremorientale, Zen soprattutto, e s’identifica talvolta con certe ricerche situazionali di artisti interessati alla meditazione, alla concentrazione, alla risoluzione di enigmatici “Koan”. E non fa specie pertanto che molti di questi artisti abbiano avuto legami con letterati, scrittori, intellettuali interessati a simili indirizzi mistici e iniziatici»[4]. Notiamo che, inscrivendo l’Arte Povera all’interno del più ampio movimento dell’Arte Concettuale, Dorfles esplicita una appartenenza comune a filosofie e pratiche religiose di tipo esoterico. Nel medesimo testo, viene offerta una linea interpretativa di tale movimento: «si deve considerare come una corrente squisitamente mentale, di ricerca intellettuale, speculativa, il cui fine è soprattutto quello di giungere ad una realizzazione noetica»[5].

Lo stesso Celant palesa la teoria e la fisionomia del movimento come interno all’alveo concettuale, attraverso mostre e scritti, come il suo famoso Conceptual Art, Arte Povera, Land Art, pubblicato a Torino nel 1970 per i tipi della Galleria Civica.

Il pluralismo linguistico ha caratterizzato di fatto la poetica dell’Arte Povera, e ne ha costituito il magma culturale, entro cui hanno operato artisti profondamente diversi tra loro. Impegnata in un agire che oscilla tra discorso archetipale e totalità sensoriale, arriva ad utilizzare acqua e pietra, fuoco ed elettricità, parole e idee fino a coinvolgere animali e vegetali, che assumono un’importanza particolare per il loro appartenere al mondo del primario e dell’essenziale; l’Arte Povera si pone quindi come movimento di rottura e di frattura con il passato, e in tale ricerca ha reso possibile il transito tra ciò che è mentale (concettuale) e ciò che afferisce all’intera sfera sensuale. Mentre nella pop art o nella minimal art il linguaggio è proposto quale strumento dalla natura “immutabile e perfetta”, “figurale e industriale”, l’arte povera si è connotata, invece, per un atteggiamento “iconoclasta e de-costruttivo”, con l’ambizione di muovere direttamente dall’esistenza volendola rappresentare attraverso elementi archetipici.

Proprio in questo aspetto, si evidenzia come l’oggetto, che nelle intenzioni si vorrebbe trarre dalla primarietà naturale, viene esplicitamente concepito come elemento totemico, quale feticcio. La dimensione del feticcio lega tale tipo di espressione ad una religiosità di tipo tribale, ovvero da iniziati, esoterica, ed insieme si fa carico di una concezione archetipica, che sembra preferibilmente fare riferimento ai simboli junghiani dell’inconscio collettivo. Un tale sistema d’arte, che propone l’iconoclastia come scopo e come mezzo, e che si muove in una visione religiosa ancestrale, potrebbe in qualche modo diventare “arte sacra”? Il linguaggio del feticcio e dell’archetipo possono essere utilizzati per dire Cristo? Le trame teoretiche decostruttiviste, nella cancellazione di ogni dimensione storica, possono tessere il discorso sulla storia della salvezza? Il linguaggio neotribale, quindi per sua natura esoterico, sa parlare in un contesto ecclesiale e quindi universale? Una imago ridotta a feticcio simbolico sa rappresentare la realtà di Gesù Cristo senza ridurlo a un mito ancestrale?

[Pubblicato su Zenit il 30 gennaio 2012]

1) Cfr. G. Celant (a cura di), Arte Povera. Catalogo della mostra, Mondadori Electa, Milano 2011.
2) G. Celant, Arte Povera, DossierArt n.284, Giunti, Firenze 2012.
3) P. L. De Vecchi, E. Cerchiari, Arte nel tempo. Dall’Illuminismo al Postmoderno, Bompiani Milano 1992, pag. 631.
4) G. Dorfles, Ultime tendenze nell’arte d’oggi. Dall’Informale al Postmoderno, Feltrinelli Milano 1985, pag. 132.
5) Ibid, pag. 131.

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