Ci sono sacerdoti che per varie ragioni si secolarizzano, si sposano, abbandonano il ministero. Smettono quindi di essere sacerdoti?1. Bisogna indubbiamente iniziare dalla nozione di “sacerdote”, partendo dal sacerdozio di Cristo e continuando con la nozione di sacerdozio ministeriale, distinguendolo dal sacerdozio comune dei fedeli.
Forse non c'è miglior modo per spiegarlo che rifarsi alla Lettera agli Ebrei. È vero che guardando alla storia delle religioni si può trovare il concetto di “sacerdote” anche in altre fedi: è la persona che agisce “professionalmente” come intermediario tra la comunità che rappresenta e le sue rispettive divinità; per questo è equivalente dire sacerdote o dire pontefice. Il sacerdote è il ponte di comunicazione tra la divinità e il popolo, ma non ritengo necessario approfondire ulteriormente in questa sede e in questo momento questa nozione generica di sacerdozio.
Arrivando alla prima epoca del cristianesimo, con i primi cristiani che provenivano dall'ebraismo, sorge la necessità di chiarire a quei cristiani la vera nozione, la nozione cristiana del sacerdozio. Quegli ebrei convertiti al cristianesimo sentivano la mancanza della grandiosità del tempio e dei suoi sacrifici, degli incensi sull'altare e delle vittime sgozzate, delle funzioni esteriori dei leviti (i discendenti di Levi, incaricati del tempio).
L'autore della Lettera agli Ebrei vuole convincere quei neofiti cristiani provenienti dall'ebraismo che ormai – dalla Morte e Resurrezione di Cristo – non è necessario quel culto grandioso e spettacolare del tempio di Gerusalemme, né sono necessari il tempio o l'altare o quegli animali che venivano offerti come vittime, e quindi non sono nemmeno necessari “altri sacerdoti” che si succedano gli uni agli altri di generazione in generazione: Cristo è il tempio, l'altare, la vittima e il sacerdote. Egli è l'UNICO tempio, perché Egli è il “luogo” in cui Dio e l'uomo si sono incontrati per sempre; l'UNICO altare è la sua CROCE redentrice; l'UNICA ostia e vittima: il corpo che si dona e il sangue che si versa; l'UNICO sacerdote per sempre perché Cristo Risorto “non muore più”. È imprescindibile una lettura pensata, riflessiva della Lettera agli Ebrei per entrare in questa verità cristiana: il sacerdozio unico di Cristo (cfr. Gv 4,21 e Ap 21,22) .
Questa realtà di Cristo SANTUARIO, Cristo SACERDOTE, Cristo VITTIMA la viviamo partendo dalla fede, mentre siamo pellegrini sulla terra, la viviamo partendo dalla fede nella speranza. Siamo nella fase del “GIÀ E NON ANCORA”. E visto che viviamo sulla terra (fino a quando arriverà la fine dei tempi e allora la fede non esisterà perché vedremo Dio “faccia a faccia” per com'è), per quel tempo del “NON ANCORA” che è il tempo della Chiesa abbiamo bisogno di aiuti alla nostra caduca fragilità. Sono i sacramenti, tutti e ciascuno in quanto segno e presenza viva del Signore Gesù.
E in questa dinamica del “non ancora” rientra anche il sacerdozio ministeriale.
Come dice San Pietro, i cristiani sono “la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato” (1 Pietro 2,9 e Esodo 19,5). Ciò vuol dire che tutti i battezzati formano un sacerdozio che ha accesso a Dio, e per questo la loro funzione – come quella di Cristo – è annunciare i prodigi di Dio, il grande prodigio che è la Redenzione mediante l'amore di Dio manifestato in Cristo morto, sepolto e risorto. Per questo, quando Gesù è morto “il velo del tempio si è squarciato” (Mt 27, 51); quando il costato di Cristo viene aperto (Gv 19, 34), Egli diventa Sacerdote per sempre secondo il rito di Melchisedek (Eb 8, 17) e mediante Cristo-Santificatore i santificati con il suo sangue hanno già accesso al Padre (Eb 9 e 10).
Per questa stessa ragione, mentre dura questa fase terrena del “non ancora”, per questa nostra fragilità umana abbiamo bisogno di “visualizzare” quel fatto unico e irripetibile che riguarda Gesù (Eb 9, 24-26), Sacerdote che allo stesso tempo si offre come vittima: “Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà” (Eb 10, 6-7).
2. A partire da queste tre idee o nozioni (sacerdozio di Cristo, sacerdozio ministeriale e sacerdozio comune) si può raggiungere un'altra idea: il “carattere” sacramentale, e in concreto il carattere che imprime il sacramento dell'ordine.
A quanti viene affidata “ministerialmente” questa “ripetizione” dell'UNICO SACRIFICIO, l'incarico viene consegnato mediante l'imposizione della mani nel sacramento dell'ordine sacerdotale, che fa sì che colui che lo riceve si configuri con Cristo-Capo del Corpo dei “santificati”. Per questo il sacerdozio ministeriale, configurando il “ministro ordinato” con Cristo sacerdote per sempre, fa sì che quel sacerdote che riceve il sacerdozio lo riceva per sempre: per sempre resta marcato e sigillato, in aeternum secondo il rito di Melchisedek, come dice Cristo stesso nella Lettera agli Ebrei.
3. Torniamo allora alla domanda iniziale: un sacerdote può smettere di esserlo?
La risposta è la conclusione di tutto ciò che è stato detto finora: un sacerdote non smette mai di esserlo, un sacerdote validamente ordinato non perderà mai il suo “carattere” sacerdotale, il suo sacerdozio è per sempre.
E allora i sacerdoti che abbandonano? La risposta è chiara: continuano ad essere sacerdoti, ma la Chiesa che ha imposto loro degli obblighi per esercitare il sacerdozio può dispensarli da quegli obblighi se il sacerdote lo richiede perché gli risulta impossibile o oltremodo difficile rispettarli (la recita del breviario, il celibato, il servizio in una parrocchia); allo stesso tempo in cui viene concessa la dispensa, vengono esortati a che da quel momento in poi “non esercitino il sacerdozio”.
Questa dispensa dai doveri, e il conseguente non esercizio del ministero sacerdotale (non ascoltare confessioni – tranne in pericolo di morte –, non celebrare l'Eucaristia, non svolgere incarichi pastorali alla guida di una comunità di credenti…), viene concessa mediante un iter minuziosamente regolamentato, e su richiesta espressa al Santo Padre e per concessione totalmente “di grazia” da parte del papa; ciò vuol dire che si richiede una dispensa che può essere concessa o meno, ma non si “reclama un diritto” da parte del richiedente.
Non bisogna tuttavia concludere con questa affermazione finale, che può sembrare dura. La Chiesa è sempre Madre, e prima di concedere questa dispensa ciò che desidera è che il richiedente rifletta seriamente sulla grandezza del dono che Dio gli ha fatto dandogli questa configurazione con Cristo, così marcata e sigillata da consistere nel fatto che un povero uomo, indegno come qualsiasi altro, possa dire con le labbra e con il cuore dello stesso Cristo: Ti perdono i peccati; questo è il mio corpo; questo è il mio sangue.
Rendiamo grazie a Dio per il dono del sacerdozio alla sua Chiesa; per questo abbiamo l'Eucaristia; per questo abbiamo il perdono dei peccati; per questo abbiamo il Pane della Parola.