Il corrotto “si stanca di chiedere perdono” e può essere solo guarito
La corruzione è l’erba cattiva del nostro tempo che si nutre di apparenza e accettazione sociale, si erge a misura dell’agire morale, e può consumare dall’interno, in atteggiamenti di “mondanità spirituale” quando non di “sclerosi del cuore”, anche la stessa Chiesa. E se per il peccato esiste il perdono, per la corruzione no. Per questo la corruzione deve essere guarita.
E’ la critica sferzante e impietosa che emerge da alcune pagine scritte nel 2005 da Jorge Mario Bergoglio quando era arcivescovo di Buenos Aires, e il cui testo è stato ora ripreso in un libro, “Guarire dalla corruzione”, pubblicato per la prima volta in italiano (Editrice missionaria italiana).
Peccato e corruzione
Nel suo affresco a tinte forti Bergoglio spiega da subito che la corruzione è legata a doppio filo al peccato, ma si distingue da esso. La corruzione infatti non “è un atto, ma uno stato, uno stato personale e sociale, nel quale uno si abitua a vivere”, attraverso “il generarsi di abitudini che vanno deteriorando e limitando la capacità di amare”.
Bergoglio riassume poi così i tratti salienti di questa piaga:
1) Immanenza. La corruzione tende a generare “una vera cultura, con capacità dottrinale, linguaggio proprio, maniera di procedere peculiare”, diventa una “cultura della sottrazione”, dove “la trascendenza si avvicina sempre più al di qua, tanto da farsi quasi immanenza”. Il processo che porta dal peccato alla corruzione è un processo di “sostituzione di Dio con le proprie forze”. La genesi si rintraccia in una “stanchezza della trascendenza: di fronte al Dio che non si stanca di perdonare, il corrotto si erge come autosufficiente nell’espressione della sua salvezza: si stanca di chiedere perdono”.
2) Buone maniere. Questa autosufficienza umana che riflette l’“atteggiamento del cuore riferito a un tesoro che lo seduce, lo tranquillizza e lo inganna” è una “trascendenza frivola”. Nella corruzione, infatti, domina una sorta di “sfacciataggine pudica”, si crea “un culto delle buone maniere che coprono le cattive abitudini”. Il corrotto è un equilibrista della “squisitezza”, campione delle buone maniere. E se “il peccatore, nel riconoscersi come tale, in qualche modo ammette la falsità del tesoro al quale ha aderito o aderisce…il corrotto, invece, ha sottomesso il suo vizio a un corso accelerato di buona educazione”.
3) Misura morale. “Il corrotto – scrive Bergoglio – ha sempre bisogno di paragonarsi ad altri che appaiono coerenti con la loro stessa vita (anche quando si tratta delle coerenza del pubblicano nel confessarsi peccatore)”. Una sua caratteristica sta nel “modo in cui si giustifica”, presentando le sue “buone maniere” come opposte a situazioni di peccato estremizzate o frutto di caricatura e in questo si erge a “giudice degli altri” si fa “misura del comportamento morale”.
4) Trionfalismo. “Il trionfalismo è il brodo di coltura ideale per gli atteggiamenti corrotti”. A questo proposito il teologo Henri de Lubac parla della velleità e della frivolezza che possono annidarsi nella “mondanità spirituale”, la “tentazione più perfida” che guarda come ideale morale all’uomo e al suo perfezionamento e non alla gloria di Dio. Secondo Bergoglio la mondanità spirituale “non è nient’altro che il trionfo che confida nel trionfalismo della capacità umana; l’umanesimo pagano adattato a buon senso cristiano”.
5) Complicità. “Il corrotto non conosce la fraternità o l’amicizia, ma la complicità”, tende a trascinare tutti alla propria misura morale. O si è complici o si è nemici. “La corruzione è proselitista”. “La corruzione si camuffa da comportamento socialmente accettabile” come “Pilato che fa come se il problema non lo riguardasse, e perciò se ne lava le mani, anche se in fondo è per difendere la sua zona corrotta di adesione al potere, a qualsiasi prezzo”.
La corruzione del religioso
Bergoglio fa poi una disamina molto lucida degli “stati di corruzione quotidiana” che lentamente “fanno arenare la vita religiosa”. Si tratta di una specie di paralisi che si produce quando un’anima si adatta a vivere tranquillamente in pace.
All’inizio, c’è “il timore che Dio ci imbarchi in viaggi che non possiamo controllare”. Ma così facendo, spiega Bergoglio, “gli orizzonti si rimpiccioliscono a misura della propria desolazione o del proprio quietismo. Si teme l’illusione e si preferisce il realismo del meno alla promessa del più”. E qui si annida il pericolo, perché “nella preferenza per il meno che sembrerebbe più realista c’è già un sottile processo di corruzione: si arriva alla mediocrità e alla tiepidezza (due forme di corruzione spirituale)”, un piano inclinato che conduce “allo scoraggiamento dell’anima”, in una “lenta, ma definitiva, sclerosi del cuore”.
Ecco allora che l’anima si aggrappa a tutti i prodotti che “il supermercato del consumismo religioso” gli offre, e quindi tenderà a interpretare la “vita consacrata come una realizzazione immanente della sua personalità”, oppure inseguirà la “soddisfazione professionale”, quando si compiacerà della stima altrui, o si dedicherà a una intensa vita sociale. Di qui l’invito dell’allora arcivescovo di Buenos Aires: “la nostra indigenza deve sforzarsi un poco per aprire uno spazio alla trascendenza”, perché “il Signore non si stanca di chiamarci: ‘non avere paura…’. Non temere che cosa? Non temere la speranza…e la speranza non delude”.