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Covid-19: cosa raccontano i malati a un passo dalla morte che si sono risvegliati?

INTENSIVE, CARE, PATIENT

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Annalisa Teggi - pubblicato il 28/05/20

La paura, gli attacchi di panico sotto il casco a ossigeno, il terrore di precipitare in un buio irreversibile. Per tutti un momento di coscienza intenso: «Ho rivisto la mia vita, mi sono chiesto se avevo fatto tutto bene, se avevo amato come avrei dovuto amare».

Ne stiamo già allontanando il ricordo, di quei giorni in cui – presi del tutto alla sprovvista – facevamo i conti con un virus che costringeva i malati più gravi a essere isolati e, nel peggiore dei casi, a morire senza avere accanto i propri cari. Allontaniamo da noi questa memoria, opponendogli la voglia di fuggire in fretta da quell’incubo per concentrarci sulla ripresa, sulle guarigioni che aumentano e i decessi che scendono. Corriamo via, a gambe levate, da quei momenti terribili in cui la nostra creaturalità ci è apparsa così fragile, un’evidenza che non si poteva aggirare. Era marzo, quando rimbalzava su ogni schermo l’esclamazione orribile: «Muoiono da soli!».


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In quel caso eravamo noi, preservati dalla malattia, a immaginare quello scenario così tragico, ma ora c’è la voce di chi è uscito vivo dai reparti di terapia intensiva e può raccontare le sue settimane di calvario, quel patire che li ha portati a un passo da una morte dolorosa e in solitudine. Gli studiosi di letteratura hanno riempito saggi bellissimi sull’evidenza che in tutti i poemi delle grandi civilità è sempre presente l’elemento della discesa agli inferi (per noi c’è Dante, ad esempio), adesso ne capisce il senso anche l’uomo comune; siamo tutti segnati da questa consapevolezza: c’è un momento supremo per la coscienza in cui il senso dell’esistenza – o il non senso – si forgia in modo indelebile, ed è il confronto con il buio e l’ipotesi della fine.

Due testate nazionali, il Corriere della Sera e La Stampa, hanno ospitato le testimonianza di pazienti Covid usciti vivi e malconci dalla terapia intensiva. Questi giornali hanno ospitato dei reportage che vi invito a leggere nella loro integrale bellezza. Lo spazio che mi ritaglio è quello di raccogliere qualche frammento da custodire come memoria di questo tempo ferito che ci ha sbattuti senza troppi morbidi paracolpi a tu per tu con la nostra mortalità, dato oggettivo che può essere occasione opposta alla disperazione.

Segnati dentro e fuori

«Del mio tempo sedata ricordo cose vaghe. Continua a venirmi in mente questa sensazione di avere attraversato un viale profumato, con tanti alberi di pesco, una bambina che mi dava la mano, io che mi incamminavo con lei, ma poi mi veniva in mente il pensiero che Alessandro, il mio quarto figlio, ha solo otto anni, e allora dicevo no, aspetta, non posso, e tornavo indietro». (da Corriere)

A parlare è Marzia Merlin, una delle voci raccolte nel reportage Risvegli di Stefano Schirato e Jenny Pacini, due autori che hanno avuto le autorizzazioni necessarie a entrare nella terapia intensiva e nel reparto di infettivologia dell’ospedale Santo Spirito di Pescara. Marzia è entrata in terapia intensiva il 22 marzo, è stata intubata e per tre volte ha avuto la percezione di essere vicina alla morte. Il mistero che è lo spazio dell’incoscienza lascia attoniti.

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Non tutti possono dire di essersi risvegliati da quel tempo sospeso in cui la lotta con la malattia si è fatta decisiva, e i pazienti usciti vivi dalla terapia intensiva hanno negli occhi il ricordo indelebile dei tanti morti visti accanto a sé. Molti combattono con un senso di colpa forte. Ma il risveglio comporta una gratitudine radicale per la vita ritrovata, insieme a tante ferite psicologiche e fisiche. Su quest’ultime ancora molto c’è da capire; vero è che la convalescenza di chi ha visto il volto peggiore del Covid-19 non è una passeggiata. Maurizio Melchiorre in 35 giorni di degenza ha perso 23 chili:

Un’altra cosa che non viene detta è quanto sia difficile, il dopo. Forse perché nessuno ancora capisce se nel futuro immediato del nostro Paese sono previste strutture adeguate per la riabilitazione sia respiratoria che muscolare. Melchiorre dice che la ripresa è «lentissima e faticosa», pochi passi e poi devi fermarti che non ce la fai più. La signora Merlin abita in una casa a due piani. Ora è già contenta perché riesce a scendere la scale in modo normale, ma a salire «faccio un gradino per volta, fermandomi ogni tre, come i vecchietti». (Ibid)

Occhi chiusi, coscienza aperta

Un altro reportage intenso e straziante è The Mindfulness of the Survivorsdi Sergio Ramazzotti, che il quotidiano La Stampa ha tradotto integralmente: sono 20 voci diversissime tra loro, accomunate da una prostrante battaglia col virus che li ha condotti nei reparti Covid di isolamento. Qualcuno ha dovuto portare il casco di ossigeno, per altri si è dovuto procedere all’intubazione e allo spostamento in posizione prona. Tutte forme di supporto ai polmoni colpiti dal virus, ma tutte procedure dolorose. In molti testimoniano la sensazione orrenda di soffocamento che provoca il casco a ossigeno; anche un dottore, esperto di questo stumento e consapevole del grosso fastidio, racconta di essere andato nel panico per timore di soffocare:

Da medico, sapevo che fisiologicamente accadeva il contrario, che la pressione forzata stava aprendo maggiormente i miei alveoli polmonari. Ma il mio corpo e la mia mente mi dicevano che stavo morendo soffocato. Soltanto in quel momento ho capito davvero cosa provavano i miei pazienti, che spesso avevo visto andare in panico e strapparsi via il casco. L’avrei fatto anch’io. (da La Stampa)

Siamo tenuti in vita da gesti a cui non badiamo. Inspirare ed espirare, quante volte al giorno ci facciamo caso? Racconta Carlo Giussani di Cremona:

Non ci rendiamo conto di respirare. Lo capisci solo quando ti manca l’aria, come mancava a me quand’ero sotto il casco a ossigeno. Lì capisci che potresti morire, e ogni volta che cerchi di inspirare senti come un orologio che ti batte dentro. […]Ho rivisto la mia vita, mi sono chiesto se avevo fatto tutto bene, se avevo amato come avrei dovuto amare. E con fatica ho scritto anche un testamento: purtroppo l’unico libro che mi ero portato era un volume comico, di Cochi e Renato. È lì che ho scritto le mie ultime volontà. (Ibid)

Non sapete né il giorno né l’ora. Questa frase evangelica che suona sempre apocalittica è di un realismo potente, siamo noi quelli che distrattamente calcolano il tempo come se la sua misurazione fosse a nostra discrezione. All’improvviso può arrivare il momento supremo, quello in cui ci si congeda dal mondo terreno e questa consapevolezza spalanca una voragine di ricordi, rimpianti, desideri, mancanze. Può accadere che un uomo si trovi a fare l’esame di coscienza più serio della propria vita, appuntandolo su un libro comico. Qualunque brandello va bene, pur di dar voce a quelle cose così importanti che hanno mostrato il loro valore solo a un passo dalla perdita definitiva.

I testimoni che parlano nel reportage sono eterogenei da ogni punto di vista, eppure tutti constatano la presenza o il bisogno di un legame durante le ore più buie della loro malattia. E questo è il segno umano di un DNA che ci rende opposti al diavolo e inequivocabilmente parenti di un Padre, magari anche non riconosciuto, la cui impronta più netta è l’amore, il vincolo, la relazione. A un passo dalla morte, tutte queste persone raccontano una tensione verso un legame, con gli infermieri attorno, con i video messaggi dei propri cari, con il pensiero a quelle persone a cui non si è manifestata sufficiente premura. E oltre al legame cercato, c’è anche chi come Ida Cappa si è sentita accompagnata da una presenza perduta da tempo:

Percepivo accanto a me la presenza di mio padre, morto da tempo: mi teneva una mano sulla gamba e continuava a ripetermi: ‘Devi lottare, devi farcela’, mentre io gli rispondevo che non ce la facevo più e volevo morire. Poi mi sono svegliata. (Ibid)
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Ecco che, con commovente evidenza, si sgretola l’incubo del morire da soli. Se è vero che la natura di questo virus impone al paziente la separazione dai propri familiari nel momento più difficile, si deve radicare in noi la fede che Dio non lascia solo l’uomo nell’ora suprema, il Cielo ha mani solerti che ci soccorrono. Possiamo essere fieri nichilisti per una vita intera, per poi accorgerci al momento giusto che non siamo orfani di Padre in questa valle di lacrime.

La puntura della fede

Ho lasciato da ultimo il tassello cruciale, quello che spetta alla libertà umana riconoscere o rifiutare. Si dice che in punto di morte tutta la vita ci passi davanti, ed è quello che testimoniano questi pazienti risvegliatisi dal coma indotto per curarli. Si dice anche che sorga più intenso il pensiero di Dio, i più scettici affermano che sia una forma di debolezza. È vero l’opposto, cioé che la robustezza di un’anima spicca nei momenti cruciali. Mi ha colpito un passo della testimonianza di Franco Pugliese, medico di 67 anni anch’egli prostrato dalla fatica di sopportare il casco a ossigeno; dopo una forte crisi di panico, una svolta:

A darmi coraggio erano le albe, che vedevo dalla finestra vicino al mio letto: ogni volta che vedevo spuntare il sole, sentivo di aver vinto una piccola battaglia. (Ibid)

Anche inconsapevole, questa è un’esperienza di fede originaria: constatare che le cose vengono strappate al buio, ogni giorno, anzi ogni istante. L’alba c’è, e non la costruiamo noi. È l’ipotesi prima della Genesi, e s’incarna in ogni nostra giornata – sebbene la nostra inerzia ne trascuri la presenza e trascuri la gratitudine che ne deriva.

Ma anche chi era già certo della propria fede l’ha vista trasformarsi dentro l’esperienza tragica della malattia. Se l’alba è già un segno della presenza divina, il vertice della compagnia di Dio all’uomo è la sua Incarnazione e Passione. Gianmario della Giovanna è un sacerdote di Bergamo ricoverato in terapia intensiva, il dolore più forte che ha patito è stato quello dei prelievi arteriosi:

A sopportarlo mi ha aiutato il pensiero che, se un ago era in grado di provocarmi un tale dolore, che cosa doveva significare aver avuto un chiodo piantato a martellate nel polso, e lasciato lì per ore, fino alla fine dell’agonia della croce. Questo mi ha aiutato a congiungermi in modo potente, prima impensabile, con la mia fede, a sentirne su di me l’incarnazione. Sono entrato in ospedale con un Dio, e ne sono uscito con uno completamente diverso. (Ibid)

Tutto quello che un uomo può patire, Gesù lo ha già vissuto su di sé. Ecco una compagnia capace di sconfiggere ogni tenebra, per chi voglia accoglierla. E questo sacerdote ha ricapitolato tutta la sua fede, sentendone una volta di più tutta la verità universale e particolare che possiede. In fondo è la sfida posta a ciascuno di noi, anche senza essere condotti in fin di vita: lasciarci convertire ogni giorno.

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