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Come sarà la vita dopo il Coronavirus?

FATHER AND DAUGHTERS

Pierre Alain Lejeune - pubblicato il 30/03/20

Mentre il mondo si ritrova in stato d’emergenza, un prete della diocesi di Bordeaux s’interroga su quel che succederà “dopo”, quando il mondo riprenderà la sua vita normale. A che cosa somiglierà allora la nostra vita?

E tutto s’è fermato…
Questo mondo lanciato come un bolide nella sua corsa folle, questo mondo di cui sapevamo tutti che correva alla rovina ma di cui nessuno ha trovato il pulsante per l’“arresto d’emergenza”, questa gigantesca macchina è stata improvvisamente fermata di netto. A causa di un minuscolo esserino, un piccolo virus invisibile a occhio nudo… una cosa da niente! Che ironia! Ed eccoci costretti a non muoverci più e a non fare più niente. Ma cosa succederà dopo? Quando il mondo riprenderà la sua strada? Dopo, quando la bestia sarà stata vinta? Che aspetto avrà, dopo, la nostra vita?

Dopo?

Ricordandoci di quel che avremo vissuto in questo lungo sconfinamento decideremo di sospendere il lavoro in un giorno alla settimana, perché avremo riscoperto quanto è bello fermarsi; un lungo giorno per gustare il tempo che passa e gli altri che ci circondano. E chiameremo tutto questo “domenica”.

Dopo?

Quelli che abitano sotto lo stesso tetto passeranno almeno tre serate a settimana insieme: a giocare, a parlare, a prendersi cura gli uni degli altri e a telefonare a papà, che vive solo dall’altro lato della città, o ai cugini che sono lontani. E chiameremo tutto questo “famiglia”.

Dopo?

Scriveremo nella Costituzione che non si può comprare tutto, che bisogna distinguere tra bisogno e capriccio, tra desiderio e cupidigia; che un albero ha bisogno di tempo per crescere e che dare tempo al tempo è una cosa buona. Che l’uomo non è mai stato e mai sarà onnipotente, e che questo limite – questa fragilità iscritta nel profondo del suo essere – è una benedizione, poiché è la condizione di possibilità di ogni amore. E chiameremo tutto questo “sapienza”.

Dopo?

Applaudiremo ogni giorno non soltanto i medici e gli infermieri in servizio alle 20, ma anche i netturbini che lavorano alle 6, i ferrotranvieri alle 7, i panettieri alle 8, i postini alle 9, gli insegnanti alle 10, i politici alle 11 e così via. Sì, dico anche i politici perché in questa lunga traversata nel deserto avremo riscoperto il senso del servizio dello Stato, della dedizione al Bene Comune. Applaudiremo tutte queste cose e coloro che, in una maniera o nell’altra, sono al servizio del prossimo. E chiameremo tutto questo “gratitudine”.

Dopo?

Decideremo di non spazientirci più facendo la fila alla cassa, e approfitteremo di quel tempo per parlare con le persone che, come noi, attendono il loro turno. Perché avremo riscoperto che il tempo non ci appartiene, che Chi ce lo ha donato non ci ha fatto pagare niente e che no, assolutamente no, il tempo non è denaro. Il tempo è un dono da ricevere e ogni minuto è un dono da gustare. E chiameremo tutto questo “pazienza”.

Dopo?

Potremo decidere di trasformare tutti i gruppi WhatsApp creati fra vicini durante questa lunga prova in gruppi reali, di cene condivise, di nuove relazioni, di aiuto reciproco per andare a fare la spesa o per portare i figli a scuola. E chiameremo tutto questo “fraternità”.

Dopo?

Rideremo pensando a prima, a quando eravamo caduti schiavi di una macchina finanziaria che avevamo creato noi stessi – quel laccio dispotico che trita vite umane e saccheggia il pianeta. Dopo rimetteremo l’uomo al centro di tutto perché nessuna vita merita di essere sacrificata in nome di un sistema, quale che sia. E chiameremo tutto questo “giustizia”.

Dopo?

Ci ricorderemo che questo virus si è diffuso tra noi senza fare distinzione di razza, di cultura, di censo o di culto. Semplicemente perché tutti apparteniamo alla specie umana. Semplicemente perché tutti siamo umani. E da questo avremo appreso che se possiamo trasmetterci il peggio possiamo trasmetterci anche il meglio. Semplicemente perché siamo umani. E chiameremo tutto questo “umanità”.

Dopo?

Nelle nostre case, nelle nostre famiglie, ci saranno diverse sedie vuote e piangeremo quelle e quelli che non vedranno mai il “dopo”. Quel che avremo vissuto sarà stato così doloroso e intenso che avremo scoperto il legame tra noi, una comunione più forte della distanza geografica. Sapremo che questo legame, ordinariamente articolato nello spazio e nel tempo, oltrepassa anche la morte. Tale legame tra noi, che unisce una sponda dell’esistenza all’altra, la chiameremo “Dio”.

Dopo?

Dopo sarà diverso, ma per vivere questo “dopo” bisogna attraversare il presente. Bisogna acconsentire a quest’altra morte che si svolge in noi, una morte per certi versi più dura di quella fisica: non c’è resurrezione senza passione, non c’è vita che non passi per la morte, non c’è vera pace se non al di là del proprio odio, né gioia che non abbia attraversato la tristezza. E per dire questo, per dire questa lenta trasformazione di noi che si compie nel cuore della prova, questa lunga gestazione di noi stessi, per dire questo non ci sono parole.

Questo testo è stato pubblicato dal padre Pierre Alain Lejeune sul suo blog. Lo riproduciamo con la sua autorizzazione

[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]

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