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“Gesù fattosi Pane”…perché l’accusa di “impanazione” al Papa fa sorridere

POPE CORPUS DOMINI

Antoine Mekary | Aleteia | i.Media

Giovanni Marcotullio - pubblicato il 26/06/19

Una delle solite polemiche a mezzo delle quali alcuni pensano di esprimere la propria fede diventa per noi occasione di approfondimento su varie modalità di declinare la propria devozione eucaristica.

Presi da troppa frenesia, non ci si contiene e si sfoga rabbia su tutto e tutti. Spesso purtroppo chi grida di più e più forte, chi è più arrabbiato sembra avere ragione e raccogliere consenso. Non lasciamoci invadere dall’amarezza, noi che mangiamo il Pane che porta in sé ogni dolcezza. Il popolo di Dio ama la lode, non vive di lamentele; è fatto per le benedizioni, non per le lamentazioni. Davanti all’Eucaristia, a Gesù fattosi Pane, a questo Pane umile che racchiude il tutto della Chiesa, impariamo a benedire ciò che abbiamo, a lodare Dio, a benedire e non maledire il nostro passato, a donare parole buone agli altri.

Francesco, omelia per il Corpus Domini, domenica 23 giugno 2019

Soprattutto questo è stato il passaggio dell’omelia del Santo Padre che domenica ha catturato la mia attenzione: accidenti che densità, mi dicevo, e che bello il raccordo con il responsorio del rituale per il Culto Eucaristico fuori dalla Messa («Omne delectamentum in se habentem»), per non parlare di quella sana e sapida ecclesiologia che nell’Eucaristia – mysticum Christi corpus – vede “il tutto della Chiesa”. Soprattutto mi era piaciuto il riflesso della dottrina nell’esperienza dei fedeli, che sempre è chiamata ad essere momento di verifica e, per così dire, “cartina al tornasole” della fede. Il linguaggio, poi – la comunicazione in senso lato, che non a caso ha una radice in comune con “communio”) – è un segmento eminentemente rivelatore della veridicità della fede: «Con esso benediciamo il Signore e Padre e con esso malediciamo gli uomini fatti a somiglianza di Dio» (Gc 3, 9). Così mi rimbombava in testa Giacomo, l’apostolo detestato da Lutero, ed evaporavano tutte le oziose note che mi andavo facendo in testa sul concetto di “benedizione” partendo dalle “berakôt” talmudiche. No, aveva ragione Giacomo, e faceva bene Francesco a ricordarmelo: «Forse la sorgente può far sgorgare dallo stesso getto acqua dolce e amara?» (Gc 3, 11).

Parole di ostinata speranza

La benedizione che Dio spera di ascoltare da noi è naturalmente un predicato a due termini: si ringrazia sempre Dio e volta dopo volta lo si ringrazia per qualcuno/qualcosa; ciò può avvenire in due momenti anche ravvicinatissimi – quando a sera con mia moglie benediciamo le nostre figlie un osservatore esterno potrebbe non vedere la benedizione “a Dio” – ma è sempre per la grande benedizione creatrice e redentrice che ogni altra benedizione non cade nel nonsense. Benedire qualcosa in un mondo peccaminoso e irredento sarebbe pura assurdità, mentre la benedizione è l’agente e al contempo la prova di una redenzione che opera esprimendo un’ostinata speranza. Una benedizione consapevole e fondata, dunque, è pura (benché forse silenziosa) evangelizzazione: in poche parole, ed estremizzando, se io non sono pazzo mentre benedico le mie figlie sulla soglia della notte, anche voi potete dormire tra due guanciali perché evidentemente Dio c’è e non ha abbandonato il suo popolo. Ciò vale naturalmente per ogni benedizione di ogni uomo, eminentemente per quelle di quanti hanno avuto in sorte di «conoscere i misteri del regno di Dio, mentre per gli altri tutto avviene per vie simboliche» (ci. Mc 4, 11), dunque per i discepoli di Gesù. Ed ecco perché quel passaggio dell’omelia del Santo Padre per il Corpus Domini mi ha tanto colpito.

La Carne di Cristo, ciò che rende pane il Verbo

Per questioni personali, in questi ultimi giorni ho seguito meno del solito i sommovimenti della blogosfera, ma più di qualcuno è venuto a chiedermi ragione di un altro passaggio dell’omelia. Lì per lì non capii bene la ragione di queste richieste: da una rapida rassegna stampa invece ho dovuto prendere atto che questa volta (tutti i giorni ce n’è una…) il Papa era accusato di “impanazione”. È – questa – un’eresia raffinata e ben mascherata da devozione: un’aberrazione della ragione teologica di cui negli anni ho più volte avuto modo di occuparmi. Motivo in più per stupirmi non solo che il Santo Padre se ne fosse reso reo, ma anche che mi fosse sgusciata sotto al naso senza che me ne rendessi conto. A quanto ho potuto capire da un paio di cose che ho letto, i passaggi incriminati dell’omelia sarebbero due. Uno è contenuto nella pericope già riportata sopra, precisamente dove si dice:

Davanti all’Eucaristia, a Gesù fattosi Pane, a questo Pane umile che racchiude il tutto della Chiesa, impariamo a benedire ciò che abbiamo…

L’altro invece sarebbe verso la fine:

[…] l’amore fa grandi cose con le piccole cose. L’Eucaristia ce lo insegna: lì c’è Dio racchiuso in un pezzetto di pane. Semplice, essenziale, Pane spezzato e condiviso, l’Eucaristia che riceviamo ci trasmette la mentalità di Dio.

Si stenta a credere che su frasi così chiare e belle si siano scatenati i soliti vespai: uno si sarebbe aspettato che i soliti ignoti, quelli che ardiscono di accusare il Papa di “negare la presenza reale” (sic!) davanti alla frase “lì c’è Dio racchiuso in un pezzetto di pane” ristessero un poco a interrogarsi. E invece no: l’altro ieri il Papa era ariano, ieri era luterano, oggi è “impanazionista”. Se uno avesse tempo da perdere dietro a simili vaneggiamenti ne uscirebbe come John Nash quando pensava che nei quotidiani – in tutti – si nascondessero messaggi militari cifrati relativi alle stazioni missilistiche durante la Guerra Fredda.

Che cos’è veramente l’impanazione, e come evitarla

Poiché invece non c’interessano le polemiche di gente che maramaldeggia maldestramente concetti con cui non ha dimestichezza, bensì la teologia, riporto qui alcuni passaggi di un mio articolo, scritto ormai più di sette anni fa. Vi criticavo alcuni punti di una nota messa del Movimento Giovanile “Costruire” di Firenze.

[…] Ci sarebbe davvero più di un punto critico, nella bella messa “Verbum panis (ad esempio è inspiegabile come sia stata data l’approvazione ecclesiastica a un Credo che si riduce a una manciata di frasi, esposta ad altrettante eresie), ma sarà sufficientemente interessante prendere in considerazione il brano che dà il nome all’intero album – appunto, Verbum panis.

Scritto da Casucci […], il testo del canto è largamente ispirato alle categorie del Quarto Vangelo (laddove in altri brani prevale il pensiero di Paolo): questo è il motivo per cui si parla di “Verbo” e di “Figlio” senza mai nominare Gesù. Chiaro che il Vangelo secondo Giovanni non ha alcun problema a nominare Gesù, ma è pure quello che più di tutti riesce a mettere a fuoco il mistero della persona di Cristo al di là dell’angusto spazio cronologico in cui si svolge la vita terrena di Gesù: «In verità vi dico – dice Gesù, stando al racconto di Giovanni – : prima che Abramo fosse, io sono» (Gv 8,58), e con ciò intende dire che l’identità personale di Gesù non comincia ad esistere al momento della sua nascita o del suo concepimento, bensì esiste da prima. Fin da tutta l’eternità, Dio ha un Figlio, e questo Figlio, che è la Parola (= Verbum) di Dio, è a sua volta Dio, pur senza incrinare l’unicità di Dio. Da queste folgoranti intuizioni comincia embrionalmente a muoversi la riflessione teologica che giungerà infine (tritando le dottrine eretiche di Ario e di tanti altri) a formulare i dogmi trinitarî e cristologici.

Casucci sa bene che il Vangelo secondo Giovanni è l’unico dei quattro in cui non viene raccontata l’ultima cena in quanto istituzione dell’eucaristia, e proprio per questo un canto eucaristico sviluppato con concetti giovannei è obbligato a seguire le traiettorie riportate nel lunghissimo “discorso del pane di vita”, al capitolo sesto. Polemizzando con i giudei, e giocando in parte sul fraintendimento (ma deciso a non fare sconti sulla sostanza delle sue dichiarazioni), Gesù aveva detto: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno avrà mangiato di questo pane, vivrà in eterno; il pane, poi, che darò, è la mia carne per la vita del mondo» (6,51). Benissimo: si parla di carne come di pane, e della carne era stato detto – nel Prologo del medesimo Vangelo – che «il Verbo si è fatto carne» (1,14). Nasce così l’idea – sembra una genialata, in effetti! – del ritornello: «Verbum caro factum est, / Verbum panis factum est».

Ecco che, una volta tanto, scrivere in latino non è segno di attaccamento e fedeltà alla Tradizione (anche se neanche il suo contrario, semplicemente pura ignoranza): l’idea di fondo è che l’analogia che c’è tra l’Incarnazione e l’Eucaristia è tale da poter spingere a dire che “l’eucaristia è analoga all’Incarnazione”. La cosa potrebbe sembrare stare in questi termini, in effetti: Giovanni Paolo II aveva scritto, nella sua ultima enciclica, che «l’Eucaristia, mentre rinvia alla passione e alla risurrezione, si pone al tempo stesso in continuità con l’Incarnazione» (Ecclesia de Eucharistia, 55). Giovanni Paolo II non fu il primo ad avere di queste idee, poiché già san Francesco aveva scritto una cosa molto vicina a questa:

Ecco ogni giorno egli si umilia, come quando dalla sede regale discese nel grembo della Vergine; ogni giorno egli stesso viene a noi in apparenza umile; ogni giorno discende dal seno del Padre sull’altare nelle mani del sacerdote. E come ai santi apostoli si mostrò nella vera carne, così anche ora si mostra a noi nel pane consacrato.

Ammonizioni, 144

Sembra proprio che, se quella che Balduzzi e Casucci fanno cantare a mezza Italia è un’eresia, siano stati eretici anche Giovanni Paolo II e san Francesco! No, la faccenda è più sottile: è vero, Francesco ammette che «come quando scese nel grembo della Vergine, così ogni giorno scende nelle mani del sacerdote». Non basta l’analogia tra il grembo di Maria e le mani dei sacerdoti! Francesco prosegue dicendo che «come i discepoli lo hanno riconosciuto nella vera carne, così noi lo riconosciamo nel pane consacrato». Sì, Francesco ammette tutto ciò, ma la questione sta o cade sulla base di questa domanda: chi è il soggetto di cui parla Francesco e che gli Apostoli e noi tutti, in modalità diverse, vediamo? Chi? Il Verbo o Gesù? La risposta arriva proseguendo immediatamente:

E come essi con gli occhi del loro corpo vedevano soltanto la carne di lui ma, contemplandolo con gli occhi dello spirito, credevano che egli era lo stesso Dio; così anche noi, vedendo pane e vino con gli occhi del corpo, dobbiamo vedere e credere fermamente che questo è il suo santissimo corpo e sangue vivo e vero.

Per Francesco, dunque, non ci sono dubbî: c’è, sì, un’analogia tra il mistero della consacrazione e quello dell’Incarnazione, ma il soggetto di quest’ultima è il Verbo (che assume l’intera natura umana – «si fa carne», come dice Giovanni), mentre il soggetto dell’altra è il Verbo incarnato (che trasforma in Sé il pane e il vino). A parte che chiunque capisce benissimo la differenza tra “trasformare in sé il pane e il vino” e “trasformarsi in pane e vino”, il problema è che – a dire le cose come le hanno scritte Balduzzi e Casucci – sembrerebbe che a rendersi presente “sotto le specie del pane e del vino” non sia Gesù Cristo («in corpo, sangue, anima e divinità», si diceva quando la dottrina cristiana veniva insegnata e appresa), bensì il Verbo (e il Verbo non si è mai fatto pane). Ragionando sul testo e astraendo dalla fiducia che pure si deve alla bontà degli autori, bisogna ammettere la possibilità che il contenuto del testo sia fallato non casualmente, o nel duemila il cardinal Ratzinger non avrebbe dovuto scrivere questo:

Inoltre, per giustificare da una parte l’universalità della salvezza cristiana e, dall’altra, il fatto del pluralismo religioso, viene proposta una economia del Verbo eterno, valida anche al di fuori della Chiesa e senza rapporto con essa, e una economia del Verbo incarnato.

Dominus Iesus, 9

Che vuol dire, questo? Non proprio che, con l’ascensione, il Figlio di Dio si sarebbe spogliato dell’umanità di Cristo, come uno che – uscito sotto la pioggia con l’impermeabile – se lo levi e lo lasci appeso tornando a casa; piuttosto vuol dire che, come un animatore di marionette non è completamente compreso nella marionetta che muove (anzi, gli bastano meno dita di quante ne ha in una mano!), così anche il Figlio di Dio non è tutto racchiuso in Gesù, e può anzi continuare a fare altro, oltre che a tenere innestata e trasfigurata per sempre in sé la natura umana di Cristo.

Insomma, il Figlio di Dio s’è incarnato una volta nella storia, e poi innumerevoli volte s’è impanato: nessuno rida!, “impanazione” è termine tecnico con cui viene designata questa eresia. Già Ruperto di Reutz (nell’XII secolo) e Giovanni di Parigi (nel XIII secolo), nonché Andrea Osiander nel XVI, furono sospettati di professare questa dottrina. Ancora a metà del XIX secolo Giuseppe Bayma, un gesuita, pubblicò a più riprese tesi simili a queste, sulla dottrina dell’Eucaristia: dalla fine di maggio all’inizio di luglio del 1875 i suoi scritti furono studiati al Sant’Uffizio. Il 7 luglio arrivò la bocciatura: questa dottrina «tolerari non potest».

In fondo, però, l’impanazione è un’eresia tutto sommato più delicata, raffinata e ragionevole di quella di “Verbum panis”, perché si limita a dire che nella consacrazione Gesù Cristo (ossia il Verbo incarnato) fa col pane quello che nell’Incarnazione il Verbo (non ancora incarnato!) fece con l’intera umanità di Cristo. Si trattava, in fondo, di un tentativo di raffinamento della dottrina della consustanziazione, ovvero di quell’opinione teologica (fallace) che voleva che nel pane consacrato la sostanza del farinaceo non scomparisse del tutto al sopraggiungere della duplice natura dell’Incarnato, ma che stessero lì tutte e due (da buone vicine). […]

La carne di Cristo, garanzia e tutela della fede

Se qualcuno ha il capogiro per queste finezze scolastiche, non deve scoraggiarsi: probabilmente gli officiali della Curia Romana saranno in paradiso col Poverello di Assisi, e tuttavia nessuno vorrà sensatamente affermare che malgrado le tendenze al fisicismo il primo abbia ispirato la vita cristiana di innumerevoli persone, a differenza dei secondi – i santi riformano la Chiesa nonostante gli eventuali limiti della propria dottrina; i dotti invece, se non sono santi, non possono edificare alcunché (come dice Paolo: «La scienza gonfia, l’amore edifica» [1Cor 8, 2]).

Comunque, in buona sostanza, tutti possono ritenere due elementi essenziali:

  • il primo è che il linguaggio dogmatico si regge necessariamente su quello analogico – e in tal senso la Rivelazione può sembrare dotata della misteriosa stabilità delle palafitte – dunque c’è almeno un modo di dire “Gesù è il pane” in un modo che non tradisca il depositum fidei… e ce ne sono almeno altrettanti che lo tradiscono;
  • il secondo è che la cartina di tornasole della questione la offre il riferimento alla carne di Cristo, ovvero alla parafrasi teologico-narrativa della “sacratissima umanità” del Verbo incarnato.

Potremmo allora ricercare anche noi qui molti passi del magistero ratzingeriano in cui tornano espressioni collimanti con quelle usate dal successore di Benedetto XVI, ma così facendo legittimeremmo in qualche modo “lo stolto pregiudizio” (© lo stesso Papa Emerito) su cui si basa la quotidiana pantomima di alcune voci del mondo cattolico. Preferisco invece accennare a un don Giovanni Folci, che ai suoi tempi avviò – con la costruzione del Santuario dedicato a Gesù Eucaristia in Colorina (Sondrio) – un’intera spiritualità cristiana intestata al “Divin Prigioniero”. Cristo è prigioniero del tabernacolo, senza dubbio, ma pure delle specie eucaristiche, sotto i cui veli la fede cattolica ortodossa riconosce e adora corpo, sangue, anima e divinità dell’unico Figlio di Dio incarnato. E pure del ministro ordinato, in un senso più lato: addirittura nella Præparatio ad Missam tradizionalmente attribuita a san Bonaventura si legge l’iperbole “Colui che il mondo non può contenere è nostro prigioniero!”. Quante eresie scrivono i santi, giuste Stelle!

Sorridiamo dei vicoli ciechi di assurdità in cui la presunzione ci ricaccia talvolta, e teniamolo a mente: a fare la differenza, in quest’àmbito, è sempre l’affettuoso vincolo del teologo all’umanità di Cristo – vincolo che si descrive e si esprime mediante le virtù teologali, anzitutto, quindi in quelle cardinali. A ciò mi è sembrata funzionale la rapida chiusura dell’omelia papale, domenica sera:

[…] non sei solo: hai l’Eucaristia, il Pane del cammino, il Pane di Gesù. Anche stasera saremo nutriti dal suo Corpo donato. Se lo accogliamo col cuore, questo Pane sprigionerà in noi la forza dell’amore: ci sentiremo benedetti e amati, e vorremo benedire e amare, a cominciare da qui, dalla nostra città, dalle strade che stasera percorreremo.

Ed è dolce l’allusione ai canti della pietà popolare, che tanto più dovremmo amare quanto più qualcosa (normalmente gli studi e le letture) vorrebbero spingerci a versioni “più intellettuali” del cristianesimo – dove la fede si disincarna lo gnosticismo, quello vero, sta sempre più in agguato –:

Ti porteremo ai nostri fratelli,
ti porteremo lungo le strade:
resta con noi, non ci lasciar,
la notte mai più scenderà.

Per questa dolce malinconia, per i lenti ma costringenti processi in cui si muovono le viscere degli umani affetti – tutte cose provate dal Verbo di Dio nell’Incarnazione (cf. Gaudium et Spes 22) – un altro celebre canto invoca il Santissimo Sacramento con questo memorabile distico:

Tu, dell’angelo il sospiro,
Tu dell’uomo sei l’onor.

E «Il Signore viene sulle nostre strade per dire-bene, dire bene di noi e per darci coraggio, dare coraggio a noi», concludeva il Papa. Invitando infine a riprendere il cammino: il Signore «chiede anche a noi di essere benedizione e dono».

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