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Cosa pensare quando vengono a parlarci di “teologia LGBT”

Giaele e Sisara, by Artemisia Gentileschi

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Giaele e Sisara *oil on canvas *86x125 cm

Giovanni Marcotullio - Aleteia Italia - pubblicato il 11/01/18

Pare che in un antico college americano, fondato da certi pii quaccheri mentre in Italia c'era il Risorgimento, una donna dall'identità sessuale e religiosa confusa imbastisca una “Queer Theology”. Evidentemente, non è il caso di infierire sulla dottoressa. Sono diverse però le condizioni di possibilità di tale decadenza della scienza teologica – conoscerne alcune può risultare utile.

Ci è toccato leggere pure della “teologia queer”!

E a dire il vero stavolta l’aggettivo calzava a pennello, considerando come la parola inglese queer significhi appunto “distorto”, “alterato”: una volta tanto l’hanno detta giusta – sono degli storpiatori della parola di Dio (pensare che questa testuale frase la disse un sacerdote di mia conoscenza, purtroppo defunto, ai soliti improvvisati e inadeguati lettori della messa delle 18! Quanto più se la meritano quelli che deliberatamente producono “teologie” eversive…).

Ma procediamo con ordine: apprendiamo che nello Swarthmore College la dottoressa Gwynn Kessler terrebbe un corso di “queer Theology” (poveri quaccheri!), e proprio dalle parole dell’accademica impariamo che tale disciplina permetterebbe di

destabilizzare gli assunti di lunga data riguardo a ciò che la Bibbia e la religione affermano su gender e sessualità.

Ora, è stato già notato come tale approccio ideologico infligga una palese violenza – per la precisione una “torsione” – al testo biblico. Seguendo tale suggestione ci si potrebbe sbizzarrire, ad libitum, nel constatare come le Scritture giudeo-cristiane possano fungere da base a qualsivoglia ideologia.

Vogliamo – che so – imbastire una “teologia supremazista”? Già fatta (ne abbiamo visto anche una drammatica rappresentazione cinematografica in Django, di Tarantino):

Il timore e il terrore di voi sia in tutte le bestieselvatiche e in tutto il bestiame e in tutti gli uccelli del cielo. Quanto striscia sul suolo e tutti i pesci del mare sono messi in vostro potere.

Gen 9, 2

Vogliamo provare una “teologia femminista”? Già fatta:

In quel tempo era giudice d’Israele una profetessa, Debora, moglie di Lappidot. Essa sedeva sotto la palma di Debora, tra Rama e Betel, sulle montagne di Efraim, e gli Israeliti venivano a lei per le vertenze giudiziarie. Essa mandò a chiamare Barak, figlio di Abinoam, da Kades di Nèftali, e gli disse: «Il Signore, Dio d’Israele, ti dà quest’ordine: Va’, marcia sul monte Tabor e prendi con te diecimila figli di Nèftali e figli di Zàbulon. Io attirerò verso di te al torrente Kison Sisara, capo dell’esercito di Iabin, con i suoi carri e la sua numerosa gente, e lo metterò nelle tue mani». Barak le rispose: «Se vieni anche tu con me, andrò; ma se non vieni, non andrò». Rispose: «Bene, verrò con te; però non sarà tua la gloria sulla via per cui cammini; ma il Signore metterà Sisara nelle mani di una donna». Debora si alzò e andò con Barak a Kades. Barak convocò Zàbulon e Nèftali a Kades; diecimila uomini si misero al suo seguito e Debora andò con lui.

Ora Eber, il Kenita, si era separato dai Keniti, discendenti di Obab, suocero di Mosè, e aveva piantato le tende alla Quercia di Saannaim che è presso Kades.

Fu riferito a Sisara che Barak, figlio di Abinoam, era salito sul monte Tabor. Allora Sisara radunò tutti i suoi carri, novecento carri di ferro, e tutta la gente che era con lui da Aroset-Goim fino al torrente Kison. Debora disse a Barak: «Alzati, perché questo è il giorno in cui il Signore ha messo Sisara nelle tue mani. Il Signore non esce forse in campo davanti a te?». Allora Barak scese dal monte Tabor, seguito da diecimila uomini. Il Signore sconfisse, davanti a Barak, Sisara con tutti i suoi carri e con tutto il suo esercito; Sisara scese dal carro e fuggì a piedi. Barak inseguì i carri e l’esercito fino ad Aroset-Goim; tutto l’esercito di Sisara cadde a fil di spada e non ne scampò neppure uno. Intanto Sisara era fuggito a piedi verso la tenda di Giaele, moglie di Eber il Kenita, perché vi era pace fra Iabin, re di Cazor, e la casa di Eber il Kenita. Giaele uscì incontro a Sisara e gli disse: «Fermati, mio signore, fermati da me: non temere». Egli entrò da lei nella sua tenda ed essa lo nascose con una coperta. Egli le disse: «Dammi un po’ d’acqua da bere perché ho sete». Essa aprì l’otre del latte, gli diede da bere e poi lo ricoprì. Egli le disse: «Sta’ all’ingresso della tenda; se viene qualcuno a interrogarti dicendo: C’è qui un uomo?, dirai: Nessuno». Ma Giaele, moglie di Eber, prese un picchetto della tenda, prese in mano il martello, venne pian piano a lui e gli conficcò il picchetto nella tempia, fino a farlo penetrare in terra. Egli era profondamente addormentato e sfinito; così morì. Ed ecco Barak inseguiva Sisara; Giaele gli uscì incontro e gli disse: «Vieni e ti mostrerò l’uomo che cerchi». Egli entrò da lei ed ecco Sisara era steso morto con il picchetto nella tempia.

Così Dio umiliò quel giorno Iabin, re di Canaan, davanti agli Israeliti.

Gdc 4, 4-23

E questa possiamo condirla anche con una rintuzzata a quello sciovinista di Manzoni, che per lodare la forza di quella donna ebbe a definirla “la maschia Giaele” (Marzo 1821). Ovvio che facesse morire la moglie estenuandola di parti, il volgare machista! Il quale del resto era in buona compagnia, se si pensa che Sant’Agostino ebbe a parlare di sua madre come di una “donna dal cuore virile”.

Mancano davvero le parole per commentare questo scomplore! Anzi no, a quell’espressione infelice del giovane vescovo di Ippona (sessuofobo e represso!) il cardinal Silvio Antoniano avrebbe dedicato l’inno Fortem virili pectore, verso la fine del XVI secolo, e quel testo figura ancora nel Breviarium Romanum! Conclusione: la Chiesa è tutta un’istituzione fallocratica volta a conservare lo status quo. Giaele, invece, col suo picchetto… anzi no, la scuola freudiana viene a insinuare che lo stesso picchetto sia in realtà un feticcio fallico, e che quindi sottolinei la debolezza del sesso femminile. No, dobbiamo togliere sia Freud sia Giaele: la teologia femminista la faremo con Giuditta!

WEB3 CARAVAGGIO JUDITH HOLOFERNES Public Domain Wikipedia
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Vogliamo provare una “teologia comunista”? Già fatta:

La moltitudine di coloro che eran venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune.

At 4, 32

Epperò dobbiamo stare attenti a tutti i tesori dei patriarchi e degli antichi giusti, tipo Giobbe, i quali da parte loro sono già stati impiegati per picchettare “teologie capitalistiche”.

Dio ristabilì Giobbe nello stato di prima, avendo egli pregato per i suoi amici; accrebbe anzi del doppio quanto Giobbe aveva posseduto. Tutti i suoi fratelli, le sue sorelle e i suoi conoscenti di prima vennero a trovarlo e mangiarono pane in casa sua e lo commiserarono e lo consolarono di tutto il male che il Signore aveva mandato su di lui e gli regalarono ognuno una piastra e un anello d’oro.

Il Signore benedisse la nuova condizione di Giobbe più della prima ed egli possedette quattordicimila pecore e seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asine. Ebbe anche sette figli e tre figlie. A una mise nome Colomba, alla seconda Cassia e alla terza Fiala di stibio. In tutta la terra non si trovarono donne così belle come le figlie di Giobbe e il loro padre le mise a parte dell’eredità insieme con i loro fratelli.

Dopo tutto questo, Giobbe visse ancora centoquarant’anni e vide figli e nipoti di quattro generazioni. Poi Giobbe morì, vecchio e sazio di giorni.

Gb 42, 10-17

Del resto,

A chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha.

Mt 13, 12

Vogliamo provare una “teologia ambientalista”? È meno gettonata, ma si fa ugualmente presto:

Il lupo dimorerà insieme con l’agnello,

la pantera si sdraierà accanto al capretto;

il vitello e il leoncello pascoleranno insieme

e un fanciullo li guiderà.

La vacca e l’orsa pascoleranno insieme

si sdraieranno insieme i loro piccoli.

Il leone si ciberà di paglia, come il bue.

Il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide;

il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi.

Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno

in tutto il mio santo monte,

perché la saggezza del Signore riempirà il paese

come le acque ricoprono il mare.

Is 11, 6-9

Vogliamo giustificare la schiavitù, la poligamia, l’incesto, l’adulterio, la prostituzione, l’omicidio, l’antropofagia, la guerra santa, il genocidio e la pulizia etnica… vogliamo fondare biblicamente l’ateismo, financo? Credetemi, con un poco di pratica, di memoria e di duttilità si possono fare queste e molte altre meraviglie. Quasi tutte, peraltro, sono già state fatte.

È un gioco fin troppo facile, quando si tratta di cercare citazioni stravaganti da un libro che è una miscellanea di testi affastellati in un arco temporale che copre più di dodici secoli… bisogna umilmente riconoscere che il Corano, opera di un uomo e di qualche revisore, è molto più angusto e limitante. Ora però, dopo che ci siamo divertiti un poco, vi chiedo: che cos’hanno in comune tutte queste spassose (o tremende) divagazioni? Tutte hanno in comune la più totale estraneità con la teologia. Tutte sono, come dice la dottoressa Kessler con ammirevole consapevolezza di reità, queer theology.

Anzitutto per le ragioni già osservate da Rodolfo De Mattei, cioè perché esse inducono nel testo una precomprensione ideologica estranea al testo… e alla sua storia effettuale. Che voglio dire? Mi spiego: quando un teologo cristiano legge l’episodio dell’ospitalità di Abramo a Mamre, è stato portato almeno fin dal II secolo a leggere in quei tre angeli le tre persone della Trinità (o meglio, da principio il solo Verbo di Dio scortato da due angeli).

L’autore che parla di Abramo intende parlare della Trinità? Possiamo serenamente escluderlo senza tema di essere ingiusti con lui. Sant’Ireneo e gli altri, però, non sono stati violenti col testo perché la loro tradizione religiosa – quella cristiana – nasceva appunto da quel testo. Visto che si parla di un testamento (quello antico), lo diciamo con un’analogia mortuaria (del resto, cf. Eb 9, 16-17): quando un uomo muore i suoi figli possono disporre delle sue cose e del suo stesso corpo. Cercheranno di esprimerne le “ultime volontà”, di sicuro, ma nondimeno saranno necessariamente loro a farsene giudici ed ermeneuti. Così i cristiani hanno potuto comporre il corpo di quell’antico racconto, ovvero il suo testo, interpretandone il contenuto, cioè le “ultime volontà”, alla luce della loro propria identità.

Siete mai andati a una visita mortuaria durante la quale avete avuto da ridire sul vestito scelto per comporre la salma, o sui fiori, sui ceri, su altri dettagli della camera ardente? È una cosa che può capitare, ma che vi siete detti, da persone equilibrate quali certamente siete? È ovvio: «Io non avrei fatto così, ma sono i figli che hanno dovuto scegliere…». Più che giusto. E se non ci sono moglie, figli, genitori, fratelli, cugini…? Si allarga il cerchio delle conoscenze per capire chi sia la persona che più di altre ha diritto a compiere quella scelta tanto importante quanto – necessariamente – discutibile. Giungendo al limite fino agli amici o – se mancano – a qualche buon samaritano di passaggio.

Usciamo di metafora e chiediamoci: i marxisti, le femministe, gli ambientalisti, i supremazisti, i freudiani, i pornomani, i cannibali e tutti gli altri… che grado di parentela hanno con la Bibbia?

Esatto: nessuno. Quale stupore, dunque, che risultino interpreti necessariamente – non dico “infedeli”, ché dialetticamente si presupporrebbe una qualche possibilità di fedeltà! – inautentici e aberranti?

Ma questo è (generalmente) chiaro: un’altra cosa di cui dimentichiamo l’importanza, di solito, è che “teologia” (in senso cristiano) non significa tanto “discorso su Dio”, quanto “discorso di Dio”, ovvero che per quanto il suo campo possa spaziare moltissimo, tale disciplina è molteplice quanto all’oggetto e unica quanto al soggetto – il soggetto della teologia, infatti, è anzitutto Dio che si rivela. «Al Dio che si rivela – insegna maestosa la Dei Verbum (5) – è dovuta l’obbedienza della fede». Di qui comincia quell’umano balbettio che solo analogicamente si dice “teologia”, e che risale le vie dell’unica, semplice e sublime teologia divina come un escursionista sale per i sentieri della montagna. Quanto più il teologo sarà bravo ed esperto, tanto meno oserà dire “teologia” il proprio lavoro: non ho mai incontrato un bravo alpinista che confondesse le proprie escursioni con la montagna in sé stessa. «Le montagne – m’insegnava padre Filippo Clerici, maestro di scalate e di teologia – sono maestre severe che fanno discepoli silenziosi».

E converso, i chiacchieroni non sono in fondo veri ed assidui frequentatori di quelle gravi lezioni. Così dopo gli alcuni anni che ormai dedico alla lettura di teologi eccelsi e buoni mi riesce ancora ostico, nonostante tutto, prendere seriamente le cosiddette “teologie al genitivo”. Con questa espressione s’intende nell’ambiente quella letteratura, molto sviluppata nel XX secolo (come bizzarra replica in sedicesimo della manualistica a cui perlopiù si opponeva), per cui si scrivono libri come “teologia degli angeli” e “teologia dei demonî”, “teologia della tenerezza” e “teologia della misericordia”, con titoli che scadono a pochi passi dal ridicolo (ci mancano la teologia dei tortellini e quella dei pannolini…). Non va buttato tutto, ci mancherebbe: anche alcuni grandissimi hanno scritto delle “teologie al genitivo” – penso a quella parte del magistero di Giovanni Paolo II chiamata “teologia del corpo” e al bel volume di Karl Rahner intitolato Teologia del Cuore di Cristo – e queste hanno senza dubbio il vantaggio di mettere a portata di mano per tutti, effettivamente, qualche morso di sacra doctrina. L’immancabile scompenso, purtroppo, è che tale popolarizzazione non avviene se non a discapito dell’unitarietà complessiva, della visione d’insieme.

Sarà che, personalmente, mi nutro in prima istanza delle pagine dei Padri, che spesso faticavano a distinguere anche solo tra “esegesi” e “dogmatica”, ma penso che una serena valutazione storico-critica delle discipline teologiche debba riconoscere nelle “teologie al genitivo” – minimali fino all’insignificanza – un ultimo e attuale stadio della lunga decadenza della scolastica. E non mi si citi Tommaso, che amo di tutto cuore: Tommaso non avrebbe mai parlato di “teologia sacramentaria” o di “teologia morale” (mentre moltissimi zelanti lo avrebbero fatto per lui) – le sue Summæ, il suo Commentarius, le sue Quæstiones, che pure esplicitano chiaramente l’argomento, non fanno disciplina a sé, né diventano nomi di trattati… quelli sarebbero sorti qualche secolo dopo la sua morte a mo’ di semplificazione didattica, cioè per travasare organicamente negli studenti di teologia le immani ricchezze della sua multiforme erudizione. Così l’epoca detta “della seconda scolastica” si caratterizzò per la fioritura del genere manualistico – inusitato fino ad allora – e nella più recente “neoscolastica” si assiste a una sciagurata cristallizzazione del sapere teologico in formule che non di rado hanno perso il contatto con la Parola di Dio – la prima vera e unica theologia – e che spesso, di conseguenza, non sanno neppure più incontrare le domande dell’uomo.

Ecco, una parte delle reazioni a questa crisi della teologia ha promosso – fra le altre cose – la fioritura delle “teologie al genitivo”. Perché faccio questo discorso, che nobilita fin troppo gli intenti della dottoressa Kessler, terribilmente meno interessante delle omonime gemelle? Perché scempiaggini come la sua Queer Theology, che anni fa sarebbe parsa una provocazione blasfema e ormai neppure ci turba più di tanto, sono parenti strettissime (e bastarde) delle “teologie al genitivo”. Chiaramente tra la Teologia del Corpo di Giovanni Paolo II e la “teologia LGBT” (non riesco neanche a scriverlo senza ridere, tanto è assurda la cosa!) c’è un abisso incolmabile, come quello che sussiste tra un santo e un macaco… eppure il genoma non mente: sono punti di ricaduta non molto lontani di una medesima “evoluzione”.

Penso che queste considerazioni, se si vuole un po’ divaganti, ci riportino al punto di partenza con un’importante lezione: se si vuole fare della vera teologia – o meglio, se si vuole assaporare qualcosa dell’unica grande teologia, che è la rivelazione di Dio stesso nella natura, nell’intelletto umano e nella storia degli uomini – si deve anzitutto lavorare a concepirne l’intima unità. Allora non ci turberanno gli articoli online su persone infelici che tentano di piastrellare i fondali sconnessi della propria anima con frammenti di Sacre Scritture malamente incollati a mo’ di mattonelle; ma soprattutto, vivremo per qualche attimo la gioia e l’estasi che i grandi teologi di ogni tempo hanno provato. Come quando Padre Filippo e Padre Silvano ci portavano in montagna nella notte, a scalare in silenzio, e ci insegnavano a “svegliare l’aurora” (cf. Sal 57, 9; 108, 3) con i salmi delle Lodi dalla cresta delle montagne.

Infatti, chi è Dio, se non il Signore?

O chi è rupe, se non il nostro Dio?

Il Dio che mi ha cinto di vigore

e ha reso integro il mio cammino;

mi ha dato agilità come di cerve,

sulle alture mi ha fatto stare saldo;

ha addestrato le mie mani alla battaglia,

le mie braccia a tender l’arco di bronzo.

Sal 18, 32-35

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