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15 anni fa oggi, sentendomi un fallito, ho provato a uccidermi

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Nevena Marjanovic | Shutterstock

Mike Eisenbath - pubblicato il 26/04/17

La mia fede è stata oscurata in quel periodo terribile, ma Dio ha trasformato questo anniversario in una data gioiosa

È un anniversario del quale non sono affatto orgoglioso, e la parte peggiore di questo tentativo di suicidio non è quello che ho cercato di fare, ma il pesante senso di colpa che mi ha invaso in seguito.

Ho toccato il fondo il 26 aprile 2012. Il Mese per la Consapevolezza della Salute Mentale è iniziato quattro giorni dopo.

Guardando indietro, forse la mia mente priva di sonno e offuscata non mi ha permesso di pensare a tutte le conseguenze potenziali del fatto di cambiare medicinali. Ero stanco di sentirmi uno zombie, sempre sull’orlo delle lacrime. Ero stanco di fissare il buio nelle prime ore del mattino, chiedendomi se quella situazione avrebbe mai avuto fine.

E allora, quando il mio medico mi ha suggerito un nuovo antidepressivo che avrebbe potuto aiutarmi a dormire, non ci ho pensato molto né mi sono prima consultato con Donna, mia moglie. “Ok”, gli ho detto. “Cambiamo”.

In genere avrei pregato di fronte a un dilemma di quel tipo, ma con la pace notturna era svanita anche la pace spirituale. Non riuscivo a sentire la presenza di Dio, in nessun posto e in nessun momento. Non è così insolito. Come la maggior parte delle persone, non ho sempre una forte consapevolezza del fatto che Dio è con me, ma riesco quasi sempre a parlare con Lui avendo la piena fede e coscienza del fatto che è lì da qualche parte e mi ascolta.




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Quella volta non sono riuscito a fare neanche quello. Non riuscivo a pregare. Per niente. Non riuscivo a calmare me e il mio mondo per ascoltare la Sua voce o i Suoi suggerimenti. Non riuscivo neanche a recitare le preghiere familiari.

Incapace di pregare, mi sentivo boccheggiare continuamente a livello spirituale ed emotivo.

La depressione e l’ansia possono essere malattie che portano a un doloroso isolamento. Dal 2001 mi ero abituato a sentirmi solo e abbandonato, anche dalla mia famiglia amorevole e dagli amici più stretti. Era una battaglia che sentivo irrazionalmente di condurre da solo. Ma sapevo di avere l’aiuto di Dio, e questo mi faceva andare avanti. E tuttavia quella volta, pur essendo certo che Egli fosse vicino, mi sono sentito abbandonato anche da Dio.

Non ci può essere solitudine maggiore.

E allora i miei pensieri, negli spasimi dell’insonnia debilitante, nella fossa della depressione grave e della disperazione, hanno preso una direzione pericolosissima. Dalla prima settimana dell’aprile 2012, la mia mente si è riempita del fascino del suicidio.

Non era la prima volta. Ci avevo già provato due volte da quando ero stato colpito da depressione e ansia. Altre volte ero andato in ospedale non sentendomi sicuro di me stesso.

Ho provato più di trenta medicine e mi sono sottoposto regolarmente a psicoterapia, nonché a trattamenti di terapia elettro-convulsiva. Ho provato anche molte altre cose, come l’agopuntura, cambiamenti alimentari e un programma di esercizi fisici. La mia fede in Dio, che in qualche modo mi convinceva del fatto che ero ancora degno d’amore, mi faceva continuare a cercare possibili risposte.

Nell’aprile 2012, però, mi sentivo un fallito. Pensavo continuamente al suicidio. Ho preso un congedo dal lavoro. Ero stanco di vivere così da più di dieci anni, e non vedevo cambiamenti all’orizzonte.

Il 26 aprile ho deciso che non c’erano più battaglie da combattere, e allora ho preso più di 60 pillole dalla mia boccetta di antidepressivi e poi mi sono preparato a svuotarla. Ho collassato e ho avuto una crisi epilettica, mentre Donna era presente.

Non ricordo nulla fino a varie ore dopo, quando mi sono risvegliato in un letto d’ospedale. La lingua gonfia mi impediva di parlare bene. Ho cercato di muovere le gambe ma con scarsissimo successo. Donna era lì, insieme a un medico e a un’infermiera.

Mi sono venute in mente due cose: quanto fossi stupido e quanto fossi fallito al punto da non riuscire neanche a suicidarmi.

Nei tre giorni successivi ho ripreso abbastanza forza nelle gambe per riuscire a stare in piedi da solo, un po’ traballante ma abbastanza sicuro da sapere che avrei potuto camminare di nuovo in modo normale. E il gonfiore alla lingua si è ridotto. Non dicevo comunque molto su quello che era successo. I medici, le infermiere e Donna agivano tutti in base al fatto che avessi avuto un attacco epilettico, e lavoravano per determinarne il motivo. Nessuno sospettava un’overdose. E io non l’ho detto.




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Il peso di quel segreto e il senso di colpa che ne derivava erano pesantissimi. Dopo il mio secondo tentato suicidio avevo promesso a Donna che non ci avrei più provato. Avevo promesso la stessa cosa anche al mio migliore amico. Avevo infranto quelle promesse. Era quasi più di quanto potessi sopportare.

Nei due mesi successivi ho rilasciato gradualmente un po’ della tensione interiore. Prima ho confessato quello che avevo fatto al mio parroco, poi l’ho rivelato al mio psichiatra, e infine al mio terapeuta.

Il più grande sollievo è arrivato alla fine di giugno. Finalmente sono riuscito a sentire che Dio era lì, e che lo era sempre stato. Per la prima volta da mesi le mie lacrime esprimevano un senso di pace, gioia e gratitudine, sollievo.

Circa un anno dopo ho preso il coraggio e ho confessato tutto a Donna. Mi ha perdonato. Un anno dopo l’ho detto al mio migliore amico, e anche lui mi ha perdonato.

E facciamo del nostro meglio per diffondere la consapevolezza sulle questioni relative alla malattia mentale durante tutto l’anno, soprattutto a maggio.

A proposito, la mia figlia minore si è sposata il 26 aprile 2014. Questa data ora è quella di un anniversario gioioso, non carico di rimpianto. Dio è veramente buono.

[Traduzione dall’inglese a cura di Roberta Sciamplicotti]

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