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Passione di Cristo e passione della Chiesa secondo san Tommaso Moro

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Costantinopoli III: 680-681 Anche questa pietra miliare dei concili ecumenici testimonia della sensibilità squisitamente orientale (e dei relativi disinteresse e inettitudine degli occidentali) in merito alla disputa cristologica che si protraeva ben oltre Calcedonia. Nella fattispecie, la sensibilità monofisita tornava a manifestarsi nell’attestazione dell’unicità della volontà di Cristo: non era solo una questione filosofica, o “di lana caprina” (poiché nella psicologia e nella metafisica in uso le facoltà dell’anima si ascrivono particolarmente alla natura, e non alla persona, affermare due volontà pareva ai monofisiti un cedimento all’odiosissimo nestorianesimo), ma anche una più semplice e genuina notazione di buonsenso, come a dire che Cristo non poteva essere e non può essere considerato “schizofrenico”, cioè in balia di due volontà contrapposte. Per tale osservazione, fondamentalmente corretta e rispondente al sensus fidelium, anche Papa Onorio credette di poter evitare l’aperta condanna del monotelismo, affermando che in effetti in Cristo non poteva che trovarsi un’unica volontà. Ma si parlava di “volontà naturali” – obiettarono anche al Papa – e non di “unità morale delle volontà”, che era quanto il Papa sosteneva. I grandi Sofronio e Massimo (detto “il Confessore” per lo zelo con cui confessò la retta fede) furono determinanti nel volgere il dibattito in favore di una spiegazione completa e comprensiva della dottrina ditelita.

Miguel Cuartero Samperi - Aleteia - pubblicato il 14/04/17

Una meditazione sulla passione di Gesù scritta mentre l’autore viveva nella sua carne la sua personale passione
«Non ci può essere nulla di più efficace per la salvezza e per seminare ogni genere di virtù nel cuore di un cristiano che meditare con pietà e fervore le vicende della passione di Cristo».

Così scriveva Tommaso Moro nel 1535 mentre, prigioniero nella Torre di Londra, attendeva la condanna per Alto Tradimento al re Enrico VIII. Durante la prigionia, avvicinandosi l’ora di salire gli scalini del patibolo per ricevere l’onore della decapitazione (la pena prevista per i traditori era lo sventramento), l’ex cancelliere del regno d’Inghilterra, si dedicò a ciò che considerava la cosa più importante ed urgente: la salvezza della sua anima. Aveva imparato infatti a temere Dio più di “quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima”. Per questo decise di concentrare la sua attenzione sul mistero della passione di Cristo, sulle sofferenze patite dal Salvatore prima di salire sul Golgotà per venire crocifisso.

Il commento ai versetti del Vangelo della passione compongono un’opera oggi conosciuta comeGesù al Getsemani. Il titolo originale, quello che appare sul manoscritto originale, descrive l’argomento dell’opera: Sulla tristezza, lo sconforto, la paura e l’orazione di Cristo prima della sua cattura. Una meditazione che ripercorre l’agonia di Gesù al Getsemani, quelle drammatiche ore prima che gli fossero messe le mani addosso dalle guardie accompagnate da Giuda, l’amico che lo tradì.

Una meditazione sulla passione di Gesù scritta mentre l’autore viveva nella sua carne la sua personale passione: Moro scrisse queste pagine durante la sua prigionia, nella solitudine della sua cella, interrompendo bruscamente la stesura del testo proprio al momento della cattura di Gesù perché, arrivato esattamente a quel punto della narrazione, venne privato dei suoi libri e dell’uso di carta e inchiostro. Una coincidenza straordinaria che rende ancora più palpabile il legame tra maestro e discepolo accomunati da una stessa sorte, traditi dagli amici, arrestati e condannati ingiustamente alla pena capitale, come malfattori, come traditori.

Ubbidendo alla voce della propria coscienza, Moro scelse di rifiutare ogni compromesso col potere e col mondo e di dedicare il resto dei suoi giorni a meditare sulla Passione di Nostro Signore. Così scriveva all’amata figlia Margaret Roper nel 1535, a pochi mesi dalla sua morte: «In verità non volevo più impicciarmi del mondo, anche se avessero voluto donarmelo tutto… Ero entrato nella piena determinazione di non occuparmi né di immischiarmi più in alcuna faccenda di questo mondo, ma che tutta la mia riflessione sarebbe stata sulla passione di Cristo e sulla mia uscita da questo mondo». Era sicuro che solo in questo modo – riflettendo sulla “amara agonia” di Cristo – avrebbe trovato “conforto e consolazione” in mezzo alle angustie.




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È per questo che il racconto della passione di Cristo di Tommaso Moro – arricchito da slanci mistici e di spunti parenetici – acquista una forza particolare. Non è il risultato di elaborazione razionale, né di approfondimenti esegetici o spirituali, non il frutto di rivelazioni private né di una ricostruzione storica ben articolata. L’opera di Moro possiede un’inedita particolarità perché l’autore e il protagonista camminano insieme, patiscono assieme l’angustia e il dolore, condividendo allo stesso tempo la fede nel Padre e la speranza della Vita Eterna. Qui le lacrime dell’autore si mescolano con quelle di Cristo e il suo sudore e il suo sangue con quelli del Salvatore. Le due vicende si uniscono in un unico grido di dolore ma da ambedue i condannati s’innalza un’unica preghiera.

Per Moro, il Vangelo della Passione non è solo fonte di conforto nelle tribolazioni («reca a buon diritto grande conforto a coloro che hanno il cuore ferito») ma rappresenta per noi una parabola di ciò che la Chiesa è chiamata a vivere attraverso i secoli. Infatti – afferma il santo inglese – è necessario «considerare nel racconto di questo evento del passato una misteriosa immagine del futuro…». Ogni volta che la Chiesa e i cristiani soffrono a causa della malvagità degli uomini, Cristo torna a soffrire nel suo corpo mistico: «Ritengo che noi non immaginiamo assurdità se temiamo che si avvicini l’ora in cui il Cristo, il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori tutte le volte che vediamo il corpo mistico di Cristo, la Chiesa di Cristo, cioè il popolo cristiano, in pericolo di andare in rovina cadendo nelle mani di uomini malvagi».

Qui l’autore segnala alcuni gravi pericoli che minacciano la Chiesa dall’esterno e dall’interno: l’avanzata dei turchi nelle terre dei cristiani e il dilagare dell’eresia all’interno della comunità ecclesiale. Questi due pericoli erano una triste realtà nel XVI secolo: l’avanzare dei musulmani allarmavano il mondo cristiano mentre in Europa ottenevano successo i riformatori ribelli che provocarono la lacerazione della cattolicità. Contro questi Tommaso Moro si schierò apertamente: contro Lutero attraverso numerosi trattati polemici per difendere le basi storiche e teologiche del primato di Roma e denunciare gli errori dottrinali della Riforma; contro Enrico VIII, preferendo rimanere fedele alla coscienza prima ancora che al suo sovrano.

Ma queste minacce che attanagliavanono la Chiesa del Cinquecento ritornano ciclicamente nella storia: «Ahimè, da tanto tempo non c’è secolo in cui non vediamo accadere da qualche parte cose del genere. Mentre ora qua ora là i feroci turchi invadono qualche parte del dominio cristiano, numerose sette di eretici ne dilacerano qualche altra con lotte intestine».

Ancora oggi, a quasi cinquecento anni di distanza, il Corpo Mistico di Cristo rivive la passione del suo Signore, subendo gli stessi flagelli, esterni ed interni, profetizzati dal santo inglese. Oggi i cristiani sono il gruppo religioso più perseguitato nel mondo, in modo particolare in alcuni paesi a maggioranza musulmana: discriminati, mal sopportati, accusati di blasfemia o di infedeltà, segnalati come “crociati” o “nazareni”. Allo stesso tempo l’eresia si manifesta in molti modi, perpetuando le divisioni all’interno del mondo cristiano, accrescendo confusioni in materia di dottrina o di morale.

Tommaso Moro segnala un’altro modo in cui “Cristo viene consegnato nelle mani dei peccatori“: attraverso “sacerdoti corrotti, dissoluti e sacrileghi” il cui operato “fa diffondere molto rapidamente tra il popolo la peste dei vizi“. Moro fu molto critico verso il clero del suo tempo denunciando fermamente il comportamento disonesto e dissoluto di molti sacerdoti del regno. In Utopia Moro descrive il suo ideale: un ordine sacerdotale composto da pochi uomini ma dotati di un’ottima preparazione e di un comportamento irreprensibile. Una violenta invettiva viene sferrata da Moro anche contro quei vescovi che – come gli apostoli – anziché vegliare sul gregge a loro affidato, dormono o si dedicano ad altro disattendendo il comando di Gesù che dice “Perché dormite?” e “alzatevi e pregate per non cadere in tentazione“: «Perché i vescovi non vedono qui la loro sonnolenza? Essi sono i successori degli Apostoli: volesse il cielo che potessero rinnovare davanti a noi le virtù degli Apostoli nello stesso modo in cui ne abbracciano volentieri l’autorità e ne imitano il fiacco torpore […]. Alcuni […] ubriachi a causa del mosto del demonio, della carne e del mondo, dormono rotolandosi nel fango come maiali». I comportamento dei vescovi inglesi davanti allo scisma di Enrico VIII giustifica l’atteggiamento estremamente duro di Moro: solo uno dei ventudue vescovi inglesi  fu capace di opporsi al re e di guadagnarsi così la condanna a morte: John Fisher.

Di fronte a questo panorama, l’invito di Tommaso Moro è quello “svegliarsi” (un tema ricorrente, forse il leitmotiv del trattato sulla Tristezza di Cristo) e, sentendosi parte di un unico corpo, soccorrere chi è in pericolo, per lo meno “con le nostre preghiere”, anche se è geograficamente lontano da noi. «Quindi, dovunque vediamo accadere queste cose, e per quanto lontano sentiamo che si verificano tali avvenimenti, pensiamo che non è tempo di sederci o di dormire, ma che dobbiamo alzarci immediatamente e correre in aiuto a coloro che si trovano in pericolo, secondo le nostre possibilità, e, a difetto di altro, almeno con le nostre preghiere».

A questo punto non possiamo non pensare ai nostri fratelli cristiani che sono perseguitati a causa della loro fede. L’invito del santo è quello di stringergi materialmente e spiritualmente ai fratelli cristiani del Medio Oriente e dell’Africa, i copti in Egitto, i cristiani in Siria, in Nigeria, in Pakistan e in altri paesi dove manifestare pubblicamente la propria appartenenza a Cristo significa mettere a rischio la propria vita e quella dei propri cari.




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«Non bisogna infatti prendere meno a cuore un simile pericolo solo perché è molto lontano da noi. Poiché, se si è del tutto d’accordo con le parole del poeta comico: “sono un uomo, ritengo che nulla di ciò che è umano mi sia estraneo”, quale condanna meriteranno i cristiani che russano mentre altri cristiani si trovano in pericolo? Perciò Cristo, per insegnarci queste cose, comandò di vegliare e pregare non solo a chi aveva posto più vicino a sé, ma anche a chi aveva fatto fermare più lontano» (cfr. Mt 26,36).

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