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La banalità del male: 7 minuti per capirne la portata

Lucandrea Massaro - Aleteia Italia - pubblicato il 28/03/17

Il film del 2012 su Hannah Arendt è un piccolo capolavoro di divulgazione sulla vita e il pensiero di una delle più grandi pensatrici del XX secolo

Al centro del film sulla vita di Hannah Arendt, di cui proponiamo il discorso finale, c’è tutta la tesissima discussione che prese l’avvio dalla serie di articoli che la stessa Arendt scrisse quando, nel 1961 fu mandata dal settimanale The New Yorker (divenuti poi un saggio di grande importanza, La banalità del male appunto) a Gerusalemme per seguire il processo del gerarca nazista Adolf Eichmann.

Negli articoli lentamente ma in maniera chiara emergeva un punto di vista che nella società americana, sia ebraica che gentile, non venne affatto compresa e tanto meno accettata: invece di descrivere Eichmann come un mostro, una sorta di sadico genio del male, la Arendt descriveva (perché questo vide) un uomo inetto, senza idee, senza cultura e senza senso critico, incapace di formulare un pensiero autonomo.

Come è stato possibile questo orrore? Arendt sottolinea immediatamente il valore politico di questa domanda, nient’affatto retorica, ma aggiunge: “La giustizia vuole che ci si occupi soltanto di Adolf Eichmann, figlio di Karl Adolf Eichmann, l’uomo rinchiuso nella gabbia di vetro costruita appositamente per proteggerlo: un uomo di mezza età, di statura media, magro, con un’incipiente calvizie, dentatura irregolare e occhi miopi, il quale per tutta la durata del processo se ne starà con lo scarno collo incurvato sul banco (neppure una volta si volgerà a guardare il pubblico) e disperatamente cercherà riuscendovi sempre di non perdere l’autocontrollo, malgrado il tic nervoso che gli muove le labbra e che certo lo affligge da molto tempo. Qui si devono giudicare le sue azioni, non le sofferenze degli ebrei, non il popolo tedesco o l’umanità, e neppure l’antisemitismo e il razzismo”

A questa valutazione si aggiunge la valutazione della Arendt sul processo. Benché favorevole all’esito (condanna a morte, che fu eseguita l’anno successivo), l’intento di definire una volta per tutte quale fosse il crimine dei nazisti si perse nel procedimento voluto fortemente da Ben Gurion, leader del neonato Stato di Israele. Per la filosofa ebraica di origini tedesche: “Qui si devono giudicare le sue azioni, non le sofferenze degli ebrei, non il popolo tedesco o l’umanità, e neppure l’antisemitismo e il razzismo” al fine di rendere visibile che:

Eichmann si era reso responsabile, commettendo crimini contro gli ebrei, di attentare all’umanità stessa, cioè alla sua base, il diritto di chiunque a esistere ed essere diverso dall’altro. Uccidendo più razze si negava la possibilità di esistere all’umanità, che è tale solo perché miscuglio di diversità (wikipedia).

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