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Così Dante prendeva in giro i Papi avidi

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Aleteia - Gelsomino Del Guercio - pubblicato il 16/03/17

Ecco perché papa Niccolò III, Bonifacio VIII e Clemente V sono finiti nell'Inferno tra i Simoniaci

Dante e i Papi avidi. Ne parla Giovanni Fighera in “Tre giorni all’inferno” (Edizioni Ares). Accade nel cerchio ottavo di Malebolge, raffigurato in chiave comica. Qui risiedono i simoniaci.

Dante era stato accusato di baratteria quando era ambasciatore presso il papa Bonifacio VIII e per questa falsa accusa sarebbe rimasto in esilio fino alla morte.

Proprio il papa del Giubileo verrà collocato ante litteram tra i simoniaci nel canto XIX. Il papa non è ancora morto al momento dell’ambientazione della Commedia (marzo o aprile del 1300). Il poeta utilizza allora un escamotage per poterlo condannare: fa sì che un altro dannato profetizzi l’arrivo del papa, una volta morto. E questo dannato è un altro pontefice!

CHI SONO I SIMONIACI

I simoniaci sono coloro che hanno approfittato della loro posizione e delle cariche ricoperte per arricchirsi. Raccapricciante è lo scenario che appare a Dante dall’alto del ponte che sovrasta la bolgia. Le anime sono collocate a testa in giù, soltanto le estremità delle gambe fuoriescono dai fori. Le piante dei piedi sono infuocate come quando il fuoco si propaga da una superficie oleosa.

L’INCONTRO CON NICCOLO III

In questa scena avviene il ribaltamento parodistico della realtà. Dante appare davanti a un papa, Niccolò III.

Nella scenetta teatrale il papa è divenuto l’assassino che deve confessare il nome del mandante se vuole evitare la pena della propagginazione cui è condannato. Non sapendo chi sia l’anima di colui che lo invita a parlare, Niccolò III (sul soglio pontificio dal 1277 al 1280) crede che sia già giunto il dannato che è destinato a sospingerlo giù nel foro e a rimanere con le gambe in fuori. E in quel momento che punta l’indice contro Bonifacio VIII.

Così esclama:

[…] Se’ tu già costì ritto,

se’ tu già costì ritto, Bonifazio?

Di parecchi anni mi mentì lo scritto.

Se’ tu sì tosto di quell’ aver sazio

per lo qual non temesti

tòrre a ’nganno la bella donna,

e poi di farne strazio?

LA PREDIZIONE DEL FUTURO

Il genio di Dante colloca così tra i simoniaci Bonifacio VIII che sarebbe morto solo nel 1303 e che, all’epoca dell’ambientazione del viaggio, non poteva già trovarsi all’Inferno. Sappiamo che i dannati della Commedia dantesca hanno la facoltà di conoscere il futuro (non quello imminente). Per questo Niccolò III sa dallo scritto del futuro che Bonifacio VIII giungerà all’Inferno nel 1303.

“PASTOR SANZA LEGGE”

Poi il dannato profetizza l’arrivo prima di Bonifacio VIII e poi di Clemente V (sul soglio pontificio dal 1305 al 1314), il Papa responsabile dell’inizio della cattività avignonese per la Curia romana, «un pastor sanza legge».

L’AFFONDO DI DANTE AL PAPA

A questo punto, Dante inizia un vero e proprio improperium nei confronti di papa Niccolo’, attenuato solo (a sentir lui) dalla riverenza che ancora conserva nei confronti della carica. Ricorda a Niccolò III che Gesù non ha mai chiesto denari ai suoi discepoli, ma solo la disponibilità a seguirlo.

Allo stesso modo gli apostoli quando scelsero Mattia per sostituire Giuda non gli chiesero oro o argento. L’avidità degli uomini di Chiesa troppo spesso «il mondo attrista, / calcando i buoni e sollevando i pravi».

L’APOCALISSE E COSTANTINO

Nell’Apocalisse Giovanni l’evangelista aveva previsto la corruzione del clero «quando colei che siede sopra l’acque / puttaneggiar coi regi a lui fu vista».

L’inizio della deviazione della Chiesa dalla diritta strada è da Dante fatta risalire alla donazione di Costantino, l’atto diplomatico contraffatto, fabbricato probabilmente nel periodo 750-850 a Roma o a S. Denis, con il quale l’imperatore avrebbe donato nel 314 al papa Silvestro I la giurisdizione civile su Roma, sull’Italia e sull’intero Occidente. Ai tempi di Dante era ritenuto un documento originale. Furono Nicolò da Cusa e Valla a smascherarne la falsità in età umanistica.

Papa Niccolò III non può che ascoltare le note cantate da Dante con rabbia, senza far motto, ma muovendo le gambe ancor con più foga, mentre Virgilio con gioia e lieto sembiante ascolta le rampogne mosse dal discepolo.

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