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La triste storia dell’eroina anti-Ebola lasciata morire per paura del contagio

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Gelsomino Del Guercio - Aleteia - pubblicato il 04/03/17

Nel 2014 aveva guadagnato la copertina di Time. Il marito denuncia: non volevano toccarla

Era sopravvissuta al virus Ebola e aveva lavorato in prima linea per combatterlo. L’infermiera liberiana Salome Karwah, 28 anni, era stata nominata «persona dell’anno» dalla rivista Time nel 2014 per il suo impegno ad aiutare a chi aveva contratto il virus, i cosiddetti “Ebola Fighters“.

Ma la donna è deceduta a Monrovia, capitale della Liberia, il 21 febbraio scorso, dopo aver dato alla luce, il 17 febbraio, il suo quarto figlio, nato con taglio cesareo (Vanity Fair, 3 marzo).

Dimessa dopo tre giorni, aveva avuto un malore, ma ritornata all’ospedale, secondo alcune testimonianze, non sarebbe stata assistita. Una morte su cui chiede di far luce il marito, James Harris, che accusa l’ospedale di negligenza e ha riferito alla BBC che gli operatori sanitari non avrebbero agito con urgenza «perché era una sopravvissuta ad Ebola e temevano che avrebbero potuto contrarre il virus» (Ansa, 3 marzo).

“LE INFERMIERE GUARDAVANO FACEBOOK”

«Abbiamo aspettato in auto tre ore – accusa James – le infermiere avevano paura a toccarla. Schiumava, Salomé. Ho dovuto prendere io una carrozzina e portarla dentro. Mentre le infermiere guardavano Facebook».

Non era la distrazione ad allontanarle, ma la paura, il ricordo della distruzione. La sconosciuta diventata simbolo degli «Ebola Fighters» è rimasta senza cure, lei che aveva fatto della cura una missione.

I funzionari della sanità locale hanno confermato che il caso è oggetto di indagine.

ERA UN SIMBOLO DI BENE

Forse è questa la cosa che ora fa più male: sapere che l’hanno lasciata morire di parto, in un grande ospedale di una grande città, proprio perché pur nel suo piccolo, nel suo ritrovato anonimato, era un simbolo di bene. Quando il virus che ha ucciso oltre 11mila persone in Africa Occidentale tra il 2014 e il 2015 ha lasciato il suo corpo, dopo essersi preso metà della sua famiglia (genitori compresi), Salomé non è rimasta a casa.

E’ tornata al centro di Medici Senza Frontiere alla periferia di Monrovia, in Liberia. Per dare una mano, per un piccolo stipendio. «I malati sono come figli», diceva. Parlava di sopravvissuti «con i superpoteri»: chi ci è passato sa cosa si prova, ed è la prova vivente che si può uscirne (Corriere della Sera, 3 marzo).

UNA DONNA CORAGGIOSA

In un comunicato Msf ricorda la donna: «La notizia della morte di Salome Karwah giunge inaspettata e ci addolora profondamente. Salome, che aveva contratto l’Ebola, è stata una nostra paziente e dopo aver coraggiosamente combattuto la malattia che ha ucciso i suoi genitori e altri membri della sua famiglia, è tornata da noi per offrire il suo supporto pratico e psicologico alle persone colpite dalla malattia».

LA LEZIONE DI SALOME’

Queste le sue parole, ricorda sempre la nota di Medici Senza Frontiere: “Se un paziente non vuole mangiare, io lo incoraggio a mangiare. Se è debole e non riesce a lavarsi da solo, io lo aiuto a lavarsi. Aiuto i pazienti in tutto ciò che posso perché so che cosa vuol dire sperimentare l’Ebola, anch’io l’ho vissuta”.

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ebolatestimonianze di vita e di fede
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