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Perché la preghiera che ci ha insegnato Gesù inizia con “Padre nostro”?

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Milles Studio/Shutterstock

Gelsomino Del Guercio - Aleteia - pubblicato il 22/02/17

Sono due parole che rappresentano la croce, e indicano, come una bussola, il cammino che dobbiamo compiere ogni giorno

La preghiera più conosciuta che ci ha insegnato Gesù è sicuramente il “Padre Nostro”. Fratel Michael Davide Semeraro in “Il Padre ritrovato” (Edizioni San Paolo) ci spiega perché questa preghiera si chiama così. Ovvero qual è la vera origine del “Padre Nostro”.

«Queste due parole sono, per così dire, a forma di croce», premette Fratel Michael Davide. Quindi non sono state nominate in modo casuale da Gesù.

UN SIMBOLO DI ORIENTAMENTO

La parola “abbà” (Padre) ci spinge verso l’alto della nostra relazione a Dio, facendo intendere la relazione di figli che abbiamo con Lui. Ma non basta, subito e immediatamente, l’aggettivo «nostro» ci mette in relazione ai nostri fratelli. Siamo tutti figli di un unico padre e tutti fratelli.

Queste due parole ci immergono in un dinamismo di verticalità (Padre) e di orizzontalità (Nostro) inseparabili. Ben prima di essere un simbolo di sofferenza, la croce è un simbolo di orientamento che, come affermano i santi Padri, non è che «il grande libro in cui apprendiamo l’arte di amare».

LA GIUSTA DIREZIONE

«Si tratta di essere aperti ai quattro venti e sensibili ai quattro punti cardinali – afferma l’autore – per non avere paura di amare e di acconsentire al desiderio che ci portiamo dentro come sigillo e seme di eternità. Il fatto di dover sempre ricominciare la preghiera con questo duplice orientamento verso i quattro punti cardinali della nostra vita filiale e fraterna, diventa il modo migliore per ritrovare la direzione giusta del nostro cammino di discepoli».

L’ALTERITA’

E’ una vera e propria una bussola di orientamento nel cammino di relazione a Dio per le strade e i vicoli del mondo in cui viviamo e per cui siamo chiamati a spenderci. «Questo mistero si fonda su un principio di alterità assoluta. Esso – sottolinea Semeraro – ci mette davanti a Dio come Padre sempre disponibile, ma mai manipolabile. Non ci capiti di cercare di mettere le mani sull’Altissimo per ridurlo a quelle immaginazioni che sono il frutto delle nostre paure e dei nostri bisogni immediati e talora ingannevoli».

STOP AGLI EGOISMI

Pertanto, il primo passo per ognuno di noi è riconoscere la propria origine nell’altro – “Padre” – ed essere pronti a sostituire il nostro istinto infantile a ripetere all’infinito “Io” e “Mio”, con un aggettivo possessivo-condiviso: “nostro”. «Ciò che rende possibile la nostra vita – prosegue l’autore de “Il Padre ritrovato” – è proprio il fatto che Dio sia Lontano, Diverso, Distante (..). Da qui nasce, in modo doloroso e magnifico, il nostro diventare fratelli perché figli di uno stesso Padre. Sono proprio la sua distanza e differenza a permettere la circolazione e l’incremento della vita nella responsabilità crescente di una libertà in perenne approfondimento».

LA PRIMA PAROLA

Poi c’è anche un altro aspetto di cui tener conto. La necessità di rivolgersi a Dio proprio con l’appellativo di “Padre” e non, di “Madre”.

Nel Vangelo secondo Luca è questa la prima parola che vediamo fiorire sulle labbra di Gesù ed è, in modo del tutto naturale, anche l’ultima. A Gerusalemme davanti all’angoscia dei suoi genitori la risposta è secca: «Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio» (Lc 2,49); sempre a Gerusalemme, l’ultima parola di Gesù è un atto di assoluta fiducia che sembra voler trascinare con sé il mondo intero: «Padre nelle tue mani consegno il mio spirit(Lc 23, 46).

RISCHIO “ANTROPOMORFISMO”

Come ricorda acutamente Jean-Yves Leloup, non possiamo essere tanto ingenui da non prendere in conto il fatto che «per alcuni, chiamare Dio “Padre” è un antropoformismo insopportabile», poiché, talora, può evocare «la fonte di tante sofferenze». Pensiamo all’immagine registrata da un bambino abituato a vedere rincasare un padre ubriaco e violento!

RUOLO CHE DA’ SICUREZZA E SERENITA’

Nondimeno, ai tempi di Gesù il padre – nonostante tutte le derive e gli abusi possibili – è colui che ama la madre permettendole di essere tale: la protegge, la nutre e si fa carico del benessere di tutta la famiglia attraverso il suo lavoro e le decisioni necessarie per il bene di tutti. Già per i nostri più remoti antenati, il ruolo del maschio gradualmente non si limita a quello dell’inseminazione, ma evolve verso una capacità di presenza che assicura non solo la sicurezza, ma anche la serenità. Per dirla con Osvaldo Poli, gradualmente si conquista nell’evoluzione un «modo maschile di educare» la prole.

LA RELAZIONE CON IL NEONATO

Lo sappiamo tutti, non basta essere genitore per essere un padre! Quando il genitore è assente, è colui che si prende cura della madre e del piccolo a essere riconosciuto come padre. Per questo è compito del padre riconoscere il proprio figlio e dargli un «nome» (Cfr. Mt 1,25). È compito del padre riconoscere il neonato come altro da se stesso, aiutando la madre a fare altrettanto.

“IMPEGNATO NELLA PROTEZIONE DEI PICCOLI”

In tal modo, il piccolo diventa soggetto di un desiderio e non più oggetto di una fabbricazione, così da essere affrancato dal rischio del determinismo che lo renderebbe un’appendice dei genitori e non un mistero tutto da scoprire e da compiere.

La lunga riflessione di Luigi Zoja ci ha convinto del fatto che quando si parla di padre non si tratta di:

«un semplice genitore biologico, ma una figura impegnata nella protezione e nella crescita dei piccoli. Quindi la paternità non è un semplice atto istintuale, ma un complicato gesto culturale attraverso cui il maschio si prende cura dei figli. Per questa ragione la paternità è fondamentalmente un’adozione: le sono necessarie intenzione e consapevolezza. Il diritto romano lo codifica in un rituale: il padre deve innalzare il figlio verso l’alto e così lo adotta».

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