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Meno bambini e meno matrimoni significa meno Dio?

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Aleteia - pubblicato il 18/01/17

L'indebolimento del matrimonio e della natalità è intimamente collegato al declino della fede

Che il cristianesimo sembri in declino in molti Paesi occidentali è una realtà visibile a tutti, ma le risposte sul come e perché di questo fenomeno suscitano ancora grandi dibattiti.

Gli studi di questo processo di secolarizzazione indicano ipotesi basate su fattori di comportamento collegati, ad esempio, all’urbanizzazione e alla tecnologia. Non mancano, infatti, statistiche che indicano come la pratica religiosa cristiana sia diminuita in quasi tutti i Paesi considerati più sviluppati dal punto di vista economico. È anche frequente sottolineare un rapporto tra il declino della famiglia tradizionale e il declino della religione.

L’autrice statunitense Mary Eberstadt, nella sua opera How the West Really Lost God (“Come l’Occidente ha davvero perso Dio”), presenta tuttavia un approccio diverso esaminando questo rapporto all’interno del processo generale di secolarizzazione: se quello più comune è identificare l’indebolimento familiare come conseguenza dell’indebolimento religioso, Mary Eberstadt propone il contrario: il declino della famiglia è a suo avviso una delle cause del declino della religione.

Osservando che siamo le persone più libere della storia dell’umanità e allo stesso tempo le più indigenti in termini di vincoli familiari e di fede, l’autrice illustra il rapporto fede-famiglia citando studi e indagini empirici che ad esempio informano che la tendenza ad andare in chiesa è crollata tra le famiglie con meno figli, e che gli uomini sposati e con figli hanno il doppio delle possibilità di frequentare la chiesa rispetto a quelli celibi e senza figli.


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Oltre a questo, la Eberstadt cita studi che dimostrano come la convivenza prematrimoniale interferisca negativamente sul modo di vivere la fede.

“Ciò che si decide rispetto alla propria famiglia è un forte indicatore di quanto tempo si dedicherà o meno alla chiesa”, ritiene l’autrice, proponendo l’idea che le famiglie più solide e numerose portino le persone ad essere più religiose.

Mary Eberstadt riconosce che la correlazione non è necessariamente casuale, e sottolinea l’influenza reciproca esistente tra i fattori “famiglia” e “fede” e tra l’indebolimento dell’una e quello dell’altra.

Per menzionare un altro esempio, con il crollo del tasso di fertilità in molti Paesi occidentali sempre più persone hanno iniziato a convivere anziché sposarsi sacramentalmente, e parallelamente sempre meno gente ha continuato a frequentare la chiesa.

“Più bambini e più matrimoni significa più Dio”, ha concluso la Eberstadt dopo aver descritto e commentato la serie di trasformazioni demografiche degli ultimi decenni.

L’autroce affronta anche altri clichés sul rapporto tra famiglia e religiosità, come il fatto che le donne siano in genere più religiose degli uomini.

Mentre altre tesi propongono che le donne siano più propense degli uomini alla pratica religiosa, la Eberstadt suggerisce qualcosa di più constatabile nella pratica: l’esperienza della famiglia e dei figli, più immediata nella donna che nell’uomo, porta più facilmente a vivere la religiosità.


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L’autrice ritiene che la paternità/maternità possa portare i genitori a una pratica religiosa più frequente per via della necessità, ad esempio, di offrire ai figli un ambiente più favorevole alla vita comunitaria.

È particolarmente interessante l’osservazione per cui il cristianesimo è “una storia raccontata attraverso la prospettiva di una famiglia di 2000 anni fa”. In una società sempre più individualista e familiarmente frammentata, le dinamiche familiari rendono più facile percepire il senso della proposta cristiana ed esserne attratti.

Mary Eberstadt ha registrato anche come le cosiddette “nuove tendenze familiari” contrarie al cristianesimo continuino a diffondersi in Occidente, anche se sottolinea che prima o poi ci sarà una svolta.

Oltre alle storiche rinascite del cristianesimo nei panorami difficili, bisogna ricordare che a livello antropologico l’essere umano ha bisogno di vincoli familiari e tornerà a farvi ricorso quando comprenderà che la loro rottura non gli porterà né una vera autonomia né una vera felicità.

Dall’altro lato, l’autrice sottolinea che anche se alle persone non piace sentirsi dire che sbagliano, il cristianesimo non deve mettere da parte la sua missione di proporre uno stile di vita in cui siamo tutti figli dello stesso Padre – uno stile di vita che, necessariamente, implica solidi legami familiari, matrimonio indissolubile e l’apertura irrevocabile alla vita in qualsiasi circostanza, per quanto possa essere complicata.

Il cristianesimo e le famiglie sane, conclude la Eberstadt, rappresentano un grande vantaggio per la società nella sua ricerca di senso e felicità.

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]

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