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Il dialogo con gli ebrei nel segno dei Papi

JERUSALEM : Pope Francis prays at the Western Wall – it

AFP PHOTO/POOL/ANDREW MEDICHINI

JERUSALEM : Pope Francis prays at the Western Wall, Judaism's holiest site, in Jerusalem's Old City on May 26, 2014. The 77-year-old pontiff faces a diplomatic high-wire act as he visits sacred Muslim and Jewish sites in Jerusalem on the final day of his Middle East tour. AFP PHOTO/POOL/ANDREW MEDICHINI

Andrea Tornielli - Vatican Insider - pubblicato il 17/01/17

La giornata dell’ebraismo. Come gli ultimi Pontefici hanno contribuito ai passi di un’amicizia

Il contributo dei due immediati predecessori di Francesco, san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, è stato decisivo. Ma il dialogo tra cattolici ed ebrei, che il 17 gennaio si celebra in modo particolare con la giornata dell’ebraismo e che è stato consacrato da Papa Wojtyla e da tanti suoi gesti e parole, ha radici più lontane.Dopo secoli di incomprensioni, di umiliazioni, di vessazioni nell’Europa cristiana, il Novecento segna un cambio di rotta, provocato certamente dall’immane tragedia della Shoah.

Si può ricordare ad esempio la famosa frase pronunciata con commozione nel settembre 1938 da Pio XI durante un’udienza a un gruppo di cattolici belgi, in un momento in cui l’Europa stava precipitando verso il baratro della guerra: «L’antisemitismo è inammissibile. Noi siamo tutti spiritualmente semiti». Ma va anche ricordato che meno di due mesi prima, il 29 luglio di quello stesso anno, Papa Ratti parlando agli alunni del Collegio di Propaganda Fide, aveva detto: «Il genere umano non è che una sola e universale razza di uomini. Non c’è posto per delle razze speciali… La dignità umana consiste nel costituire una sola e grande famiglia, il genere umano, la razza umana. Questo è il pensiero della Chiesa». Un messaggio molto criticato dalla stampa tedesca e bollato come contrario alla cultura e alla dignità della Germania nazista.

Molto si è discusso e molto ancora si discuterà sulla figura e sulle scelte del suo successore, Pio XII, anche se oggi la pubblicistica e la storiografia offrono un giudizio più equanime sul pontificato di Pacelli, ideologicamente presentato come «Papa di Hitler». Senza entrare nella controversia relativa ai cosiddetti «silenzi», si possono citare le tante iniziative che su impulso del Pontefice o con il suo consenso, vennero messe in atto per accogliere e proteggere gli ebrei romani.

Ma vale la pena anche ricordare che negli anni del liceo Eugenio Pacelli era diventato amico di un giovane, Guido Mendes, appartenente alla comunità ebraica di Roma. Discendente di una famosa famiglia di dottori e studiosi di medicina che risaliva fino al medico di corte del re Carlo II d’Inghilterra. All’indomani della morte di Pio XII, il dottor Mendes, che all’epoca viveva a Ramat Gan, in Israele, racconterà al quotidiano «Jerusalem Post» dell’amicizia che lo aveva legato al papa fin dai tempi in cui frequentavano insieme il Liceo Visconti: «Pacelli è stato il primo Papa che ha condiviso, negli anni della sua giovinezza, una cena dello Shabbat in una casa ebraica e che ha discusso informalmente di teologia ebraica con eminenti membri della comunità di Roma». Nel 1938 il futuro Pio XII, allora Segretario di Stato, si era prodigato ad aiutare la famiglia Mendes colpita dalle vergognose leggi antisemite promulgate dal governo fascista italiano. Il cardinale otterrà per loro la possibilità di recarsi al sicuro in Svizzera, da dove, l’anno successivo, espatrieranno in Palestina.

Infine, va ricordato che Pio XII è stato il primo Papa, dopo più di dieci secoli, ad inserire nella liturgia delle piccole modifiche in favore degli ebrei. Fin dal pontificato di Gregorio Magno, nella celebrazione del Venerdì Santo si faceva riferimento ai perfidi Judaei e alla perfidia Judaica. Il termine perfidi in latino ha il significato di «miscredenti». Ma con l’introduzione dei messalini in lingua volgare e le traduzioni, quel perfidi latino si era trasformato nell’inglese perfidious, nel francese perfide, nel tedesco treulos, nell’olandese trouweloos, nell’italiano perfidi. Con un significato di evidente condanna morale. Pio XII, sollecitato dall’ex rabbino capo di Roma Israel Zolli a cancellare quell’espressione, non lo accontentò ma fece fare una precisazione sull’argomento dalla Congregazione dei Riti, pubblicata il 10 giugno 1948.

Poco più di un anno dopo, il 16 ottobre 1949 il professore ebreo Jules Isaac, ricevuto in udienza a Castelgandolfo, fece notare a Papa Pacelli un altro problema. Nella stessa liturgia del Venerdì Santo, al contrario degli altri casi, quando si pregava per i giudei il popolo e il sacerdote non si inginocchiavano ma rimanevano in piedi. Isaac spiegò al Pontefice che «l’omissione della genuflessione, al momento della preghiera per i giudei, costituiva forse un fattore ancor più importante dell’errata traduzione di perfidus». Alcuni anni dopo, finalmente, Pacelli riformando la liturgia della Settimana Santa introduce la genuflessione anche nella la preghiera per gli ebrei, come avveniva nelle altre orazioni di quel rito. Passi piccoli e ancora esitanti, certamente, ma, come ha scritto l’allora console onorario di Israele a Milano Pinchas Lapide, «furono i primi miglioramenti a favore degli ebrei introdotti nella tradizione cattolica dal Medio Evo, che aprirono la porta a cambiamenti più profondi e di più ampia portata».

È san Giovanni XXIII, il Papa che farà fermare la sua auto davanti alla Sinagoga di Roma per salutare e benedire gli ebrei che stavano uscendo, ad abolire finalmente l’espressione «perfidi giudei» dalla liturgia. Nel marzo 1959, Roncalli decide infatti di modificare la controversa preghiera del Venerdì santo facendo cadere dal testo i termini «perfidi» e «perfidia». Un primo passo al quale seguiranno altre iniziative del Papa per cancellare da altre formule e preghiere accenni che potevano suonare offensivi nei confronti degli ebrei: dal riferimento al deicidio nella formula di consacrazione del genere umano al Sacro Cuore, introdotta da Leone XIII, a quelli relativi alla «Iudaica perfidia» e alla «Hebraica superstitio» presenti nel Rituale Romano, durante il rito di conversione degli ebrei per il momento del battesimo.

La svolta arriva con il Concilio e la dichiarazione «Nostra aetate», promulgata da Paolo VI. Vi si ricorda che quanto «è stato commesso» durante la passione di Gesù «non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi, né agli ebrei del nostro tempo». Si afferma che «gli ebrei non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla sacra Scrittura. Curino pertanto tutti che nella catechesi e nella predicazione della parola di Dio non si insegni alcunché che non sia conforme alla verità del Vangelo e dello Spirito di Cristo». Infine si specifica che «La Chiesa… memore del patrimonio che essa ha in comune con gli ebrei… deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli ebrei in ogni tempo e da chiunque».

Ma quel cambiamento epocale aveva bisogno di chi lo incarnasse in gesti. La svolta arriva con Giovanni Paolo II ed è legata alla storia personale del Pontefice. Con lui sale al soglio un uomo che ha vissuto da vicino il dramma della guerra nella martoriata Polonia. Nato in una cittadina, Wadowice, dove viveva una consistente comunità ebraica, aveva stretto molti legami con compagni di scuola e di gioco ebrei. Molti dei quali sarebbero morti nei campi di sterminio nazisti. La domanda sul loro sacrificio resterà lancinante in Giovanni Paolo II, che da Papa, come ha osservato Norberto Hofmann, segretario della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, si sentirà in dovere di «impegnarsi personalmente a favore dello sviluppo e dell’intensificazione dell’amicizia tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo». Il il 7 giugno 1979, Wojtyla visitò il campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau pregando davanti alla lapide che ricorda le vittime della Shoah: «Davanti a questa lapide non è lecito a nessuno di passare oltre con indifferenza».

Ancora più significativa è la visita alla sinagoga di Roma, il 13 aprile 1986 e l’abbraccio al grande rabbino capo Elio Toaff davanti al Tempio Maggiore. Un successivo passo è rappresentato, alla fine del 1993, il riconoscimento diplomatico dello stato di Israele da parte della Santa Sede. Sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, nel 1998, viene pubblicato il documento «Noi ricordiamo», una riflessione sulla Shoah e nella liturgia penitenziale del Giubileo del 2000 Papa Wojtyla ha chiesto perdono per le colpe commesse contro il popolo di Israele. Pochi giorni dopo quella liturgia, la visita in Terra Santa: Giovanni Paolo II ha pregato davanti al Muro del Pianto e ha visitato il memoriale dello Yad-Vashem, pregando per le vittime della Shoah e incontrando alcuni sopravvissuti. Gli incontri con le delegazioni ebraiche, in Vaticano come nei viaggi internazionali, sono diventati abituali.

Con Benedetto XVI, nel 2005, viene eletto Papa un teologo che più di ogni altro suo predecessore ha meditato sul legame speciale e unico che unisce i cristiani agli ebrei.Uno dei suoi primi messaggi di saluto all’indomani dell’elezione è stato al rabbino capo di Roma, il professor Riccardo Di Segni. Anche Benedetto visita il campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau il 28 maggio 2006 e ripete i gesti del predecessore durante il viaggio in Israele nel maggio del 2009. Papa Ratzinger ha visitato la sinagoga di Colonia (2005), quella di New York (2008) e quella di Roma (2010). «La nostra vicinanza e fraternità spirituali – afferma Benedetto XVI nel suo discorso al Tempio Maggiore di Roma – trovano nella Sacra Bibbia – in ebraico Sifre Qodesh o “Libri di Santità” – il fondamento più solido e perenne, in base al quale veniamo costantemente posti davanti alle nostre radici comuni, alla storia e al ricco patrimonio spirituale che condividiamo. È scrutando il suo stesso mistero che la Chiesa, Popolo di Dio della Nuova Alleanza, scopre il proprio profondo legame con gli ebrei, scelti dal Signore primi fra tutti ad accogliere la sua parola».

Dopo i gesti di portata storica e l’approfondimento teologico, con Papa Francesco – anch’egli con una storia personale di rapporti amichevoli con la comunità ebraica a Buenos Aires – si entra nella fase dell’amicizia, di un disgelo ulteriore, come dimostra la cordialità della visita alla sinagoga romana del gennaio 2016. Uno dei libri più significativi di Jorge Mario Bergoglio prima del pontificato è rappresentato dai suoi dialoghi con il rabbino argentino Abraham Skorka. Durante il viaggio in Polonia nel luglio 2016 Francesco ha visitato come i predecessori il campo di Auschwitz-Birkenau: senza aggiungere parole a quelle già eloquenti dei predecessori ha scelto di testimoniare con il totale silenzio e la preghiera il suo rispetto per le vittime della Shoah.

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