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Il Papa ai terremotati: il peggio che potrei fare è un sermone

Vatican Insider - pubblicato il 05/01/17

«Ricostruire» le case e i cuori, usare le «mani» per guarire e aiutare come Dio ha creato il mondo da artigiano, non «ferire» ciò che è già ferito con parole che non hanno la tenerezza davanti al dolore, consapevoli che la ferita si rimargina ma la cicatrice rimane, e, nonostante il dramma, sperimentare quella «vicinanza» che rende più umani e più coraggiosi, senza perdere la capacità di «sognare». Il Papa ha ricevuto in udienza le popolazioni del centro Italia colpite dal terremoto di questa estate. «Nella vostra situazione il peggio che si può fare è fare un sermone», ha detto loro Francesco, spiegando che ha preferito fare una riflessione a braccio a partire dalle parole utilizzate dagli stessi terremotati, «prendere quello che dice il vostro cuore, farlo proprio e dirlo con voi».

Due persone hanno introdotto con le loro testimonianze l’udienza concessa dal Papa in aula Paolo VI a circa cinquemila persone dei diversi paesi colpiti dal sisma del 24 agosto (con repliche, senza vittime, a fine ottobre), zone che egli stesso ha voluto visitare in silenzio lo scorso quattro ottobre: Raffaele Festa, con la moglie Iole e i due figli Leonardo e Lavinia, sopravvissuti al sisma ad Amatrice, e don Luciano Avenati, parroco di Norcia.

«Io ho scritto qui le due testimonianze che abbiamo ascoltato, ho sottolineato qualche espressione, qualche parola che mi hanno toccato più il cuore: di questo voglio parlare», ha esordito il Papa che ha rivolto alle circa cinquemila persone presenti, accompagnate dai loro vescovi, un discorso interamente a braccio. «Una parola tornata come un ritornello è stato ricostruire: quello che Raffaele ha detto molto concisamente e efficacemente, “ricostruire i cuori ancor prima delle case”, e poi ricostruire, ha detto don Luciano, “il tessuto sociale e umano, la comunità ecclesiale”. Ri– costruire. Mi viene in mente quell’uomo – ha proseguito Jorge Mario Bergoglio – che ho trovato, non ricordo in quale dei paesi che ho visitato, che ha detto “per la terza volta incomincerò a costruire la mia casa”. Ricominciare, non lasciarsi stare o dire “ho perso tutto”, amareggiarsi… il dolore è grande, eh, e ricostruire col dolore: le ferite del cuore ci sono», ha detto Francesco, raccontando di avere ricevuto in Vaticano, in distinte udienze, i genitori della piccola Giulia, morta nel terremoto, e una coppia che aveva perso i figli gemelli, «e adesso incontro voi che avete perso gente della vostra famiglia: i cuori sono feriti. Ma – ha proseguito il Papa – c’è la parola che abbiamo sentito oggi di Raffaele: ricostruire i cuori, che non è un “ma domani sarà meglio”, non è ottimismo. Non c’è posto per l’ottimismo, qui, per la speranza sì, ma non per l’ottimismo, che è un atteggiamento che serve un po’ in un momento, ti porta a avanti ma non ha sostanza».

«Oggi serve la speranza per ricostruire e questo si fa con le mani, un’altra parola che mi ha toccato», ha detto il Pontefice argentino. «Raffaele ha parlato delle mani: prima l’abbraccio a sua moglie, poi quando ha preso i bambini per tirarli fuori dalla casa con le mani, “quelle mani che aiutano i familiari a liberarsi dai calcinacci”, la mano che lascia suo figlio nelle mani di “non so chi” per andare ad aiutare un’altra persone… Poi “la  mano di qualcuno che mi ha guidato”. Le mani. Per ricostruire ci vogliono il cuore e le mani, le nostre mani, le mani di tutti, le mani con le quali noi diciamo che Dio come un artigiano ha fatto il mondo, le mani che guariscono. A me piace – ha raccontato il Papa – agli infermieri ai medici benedire le mani perché servono per guarire. Le mani di tanta gente ha aiutato a uscire da questo incubo, da questo dolore. Le mani dei vigili del fuoco, tanto bravi, tanto bravi, e le mani di tutti quelli che hanno detto “io do del mio, do il meglio”. La mano di Dio alla domanda “perché”, sono domande che non hanno risposta…».

«Un’altra parola che è uscita – ha detto ancora Francesco – è la ferita. “Noi siamo rimasti lì per non ferire di più la nostra terra”, ha detto il parroco. Bello. Non ferire di più quello che è ferito, e non ferire con parole vuote, tante volte, o con notizie che non hanno il rispetto, che non hanno la tenerezza davanti al dolore. Non ferire. Ognuno ha sofferto qualcosa, alcuni hanno perso tanto, non solo la casa i figli o i genitori, il coniuge, ma non ferire: il silenzio, le carezze, la tenerezza del cuore ci aiutano a non ferire. E anche si fanno miracoli nei momenti del dolore: ci sono state riconciliazioni, ha detto il parroco, si lasciano da parte antiche storie e ci ritroviamo insieme in un’altra situazione. Ritrovarsi col bacio con l’abbraccio con l’aiuto mutuo. Anche col pianto. Piangere da solo fa bene, è un’espressione davanti a noi stessi e a Dio, ma piangere insieme è meglio, ci ritroviamo piangendo insieme». Un’altra frase detta da Raffaele, ha sottolineato il Papa. «”oggi la nostra vita non è la stessa: è vero, siamo usciti salvi ma abbiamo perso, salvi ma sconfitti. E’ una cosa nuova questa strada di vita. La ferita si guarisce, le ferite guariranno, ma le cicatrici rimarranno per tutta la vita. E saranno un ricordo di questo momento di dolore, sarà una vita con una cicatrice in più. Non è a stessa di prima. Sì c’è la fortuna di essere usciti vivi, ma non è lo stesso di prima».

Il parroco, don Luciano, ha detto il Papa, «ha fatto accenno alle vostre virtù: “voglio testimoniare, ha detto, la fortezza d’animo, il coraggio, la tenacia e insieme la pazienza la solidarietà nell’aiuto vicendevole della mia gente”. E questo si chiama essere ben nati, non so se in italiano si usa questo termine, bien nacido in spagnolo: una persona che è nata bene. Lui come pastore dice “sono orgoglioso della mia gente”, anche io devo dire sono orgoglioso dei parroci, che non hanno lasciato la terra. Questo è buono, avere pastori che quando vedono il lupo non fuggono. Abbiamo perso, sì, abbiamo perso tante cose, casa, famiglia, ma siamo diventati una grande famiglia in altro modo. E c’è un’altra parola che è stata detta due volte, soltanto un po’ di passaggio, ma era un po’ il nocciolo di queste due testimonianze: vicinanza. Siamo stati vicini e rimaniamo vicini gli uni agli altri e la vicinanza ci fa più umani, più persone di bene, più coraggiosi. Una cosa è andare solo, sulla strada della vita, e una cosa è andare per mano con altro, vicino all’altro, e questa vicinanza voi l’avete sperimentata».

Infine, «un’altra parola che si è perduta nel discorso: ricominciare da capo, ricostruire, ma anche ricominciare senza perdere la capacità di sognare. Sognare il riprendersi, avere il coraggio di sognare una volta in più», ha detto il Papa. «Queste sono le cose che più hanno toccato il cuore delle due testimonianze. E per questo ho voluto prendere le vostre parole per farle mie – ha spiegato Francesco tra gli applausi – perché nella vostra situazione il peggio che si può fare è fare un sermone, soltanto prendere quello che dice il vostro cuore e farlo proprio e dirlo con voi, e fare una riflessione un po’ su questo».

«Voi – ha concluso il Papa – sapete che vi sono vicino e dico una cosa: quando mi sono accorto di quello che era accaduto quella mattina, appena svegliato ho trovato un biglietto dove si parlava delle due scosse, due cose ho sentito: ci devo andare. E poi ho sentito dolore, molto dolore, e con questo dolore sono andato a celebrare la messa quel giorno. Grazie per venire oggi e in alcune udienze di questi mesi, grazie per tutto quello che voi avete fatto per aiutarvi per costruire, ricostruire i cuori, le case, il tessuto sociale, anche per ricostruire (noi stessi, ndr.) col vostro esempio per l’egoismo che è nel nostro cuore e che non abbiamo sofferto». Francesco ha concluso ringraziando non solo vigili, soccorso, gendarmi, sindaci, «tutti quelli che si sono immischiati nel dolore vostro: quando uno fa la lista dei ringraziamenti sempre si vede quello che non è stato detto: ma il mio ringraziamento va a tutti».

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