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Occorre arrendersi alla propria vittoria…perché i miracoli arrivano se e quando Dio vuole

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Paola Belletti - La Croce - Quotidiano - pubblicato il 21/12/16

Che domanda peregrina, mi faccio. Perché il Signore ha (già) guarito lui o lei e non Ludo?

Tutte le volte che leggo o sento raccontare di miracoli, di guarigioni fisiche inspiegabili senza l’intervento di Altri provo una fitta sotto lo sterno. Più che fitta arriva un peso a premere il respiro. Non tutte le volte invero. Molte di queste notizie le accolgo con sincera gioia e trovo al loro passaggio il mio animo sgombro da ogni mestizia. Solo semmai un velo di malinconia. Un “fino a quando?”

Che poi tanto in là non può essere. Al massimo 50, 70 anni, una cosa così. Un turno di veglia nella notte, insomma. Stamattina ho dovuto accompagnare a scuola le bambine, che di solito porta il papà; con Ludovico al seguito, naturalmente. Non la traversata del Danubio in piena, certo, ma tutta una serie di ostacoli e scaramucce con la realtà che hanno fatto il possibile perché arrivassimo tardi. Le 4 medicine da dare al piccolo che prima è da nutrire e cambiare; la colazione per tutti; i grembiuli da sostituire, le merende da preparare; la doccia da fare. Ho detto che la devi fare! Come perché? Ieri sera non hai voluto farla e sei tornata da due giorni di gita.

E poi troppi nodi nei capelli della capellona; i codini da fare – ma non così storti mamma!  – alla lisciona che li tiene sempre sciolti e alla riccia capriccia che ha stabilito con editto imperiale che i codini e solo quelli saranno per sempre la sua pettinatura “da andare a scuola”.

E poi il parcheggio. Quell’aiuola rigata che ci fa tanto feroci. Ora lo dico e mi renderò simpatica come una lunga coda all’Inps allo sportello sbagliato che lo scopri solo una volta arrivata là; avere il Pass Handicap non è che sia poi tutto ‘sto privilegio. Certo, appena l’abbiamo ottenuto ho pensato che avrei parcheggiato tronfia ovunque. Al supermercato avrei parcheggiato alle casse; nei centri storici a ZTL sarei entrata con ostentata sicumera e strombazzando. E via farneticando. Tutto questo, si sappia, serve solo a deviare le lacrime in un corso secondario.

Ecco, stamattina dopo che ho dovuto rivendicare il posto auto con le strisce gialle, mostrando il cartellino, dopo che ho compilato a vanvera due giustificazioni per ingresso in ritardo sbagliando data e ora, dopo che ho sgridato senza un sufficiente motivo le mie bambine adorate, dopo che mi sono resa conto di avere saltato un appuntamento di neuro psicomotricità per Ludo; e dopo che ho sentito il tono stizzito, e giustamente, ci mancherebbe, della terapista; dopo che ho dovuto mendicare un altro appuntamento facendo strike a tutta una serie di altri impegni già fissati da prima della cacciata dall’Eden; ecco dopo tutte queste sciocchezze, normalissime, fastidiose il giusto, ho di nuovo desiderato con intenso infantile desiderio che finisse. Che finisse tutto. Che passasse la fatica, che sparisse il dolore. Che fiorisse mio figlio. Che sbocciasse nella sua perfezione negata. Che mi guardasse negli occhi e mi dicesse “mamma”.

Alla radio ho sentito leggere la recensione di un libro che racconta di un papà americano malato terminale di cancro che a Medjugorje ha trovato la guarigione.

Che spavento a volte pensare alla libertà e alla maestà di Dio. Lui sa, ha sentito, sente ciò che Gli chiedo. Capisce, sa. Capisce di più, sa di più. Di me. Sa. E io chiedo tutto. Ma intanto devo imparare bene che cos’è e forse anche accettare che certi dolori durano; che certe prove sono lunghe. Che i miracoli arrivano se e quando Dio vuole. Che presto o tardi sarà tutto a posto. E che non c’è niente di più decisivo ed epocale che restare al proprio posto.

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