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La “gioia piena” di Titti che partorisce sua figlia, destinata a morire dopo poche ore

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Flickr.com/ Creative Commons/ Bridget Colla

Silvia Lucchetti - Aleteia - pubblicato il 14/12/16

La storia di una mamma che rinuncia all’aborto per accogliere la vita di sua figlia, affetta da una patologia incompatibile con la vita

Cara Titti, quando sono venuta a conoscenza della tua storia ho pensato che fosse importante condividerla con i nostri lettori perché, per dirla con le parole di Paolo VI, più che di profeti abbiamo bisogno di testimoni. La tua è una testimonianza bellissima, digioia piena”, come ami definirla, una gioia sperimentata in un momento di dolore, di croce, di morte. Questo sembrerebbe un paradosso, eppure è proprio così. Ma andiamo con ordine…

Leggendo la storia tua e di tuo marito, si potrebbe cadere nell’errore di pensare che siete una famiglia straordinaria, a metà tra gli eroi e i santi: invece siete una famiglia normale, come mi hai più volte ripetuto, che ha dovuto affrontare una grande prova. Ti va di raccontarcela?

La nostra è una storia ordinaria di una famiglia semplice che vive nella Chiesa, io e mio marito Michele facciamo il Cammino Neocatecumenale, ma questo non vuol dire niente, perché è comunque difficilissimo accettare un fatto così lontano da noi, che mai avremmo immaginato. La nostra storia è straordinaria nell’ordinario, la straordinarietà è stata scoprire che Dio è fedele nella prova.

Quando avete scoperto la patologia della vostra bambina?

Al quinto mese della mia seconda gravidanza, io e Michele durante l’ecografia strutturale abbiamo scoperto che nostra figlia Benedetta era affetta da displasia tanatofora. Il medico ci informò che la bambina sarebbe di certo morta, o alla nascita o entro il primo anno di vita, tra atroci sofferenze. Poi aggiunse che in questi casi l’unica cura era l’aborto terapeutico. Mi ricordo che parlò proprio di cura, io non sapevo nemmeno cosa fosse l’aborto terapeutico, ma nonostante ciò e sebbene facessimo un cammino di fede, ci professassimo cristiani e credenti, l’idea di portare avanti la gravidanza non ci sfiorò minimamente. I dottori ci spiegarono che quella era l’unica soluzione per non far soffrire nostra figlia, e quindi ci convincemmo che l’aborto fosse la scelta giusta.

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Puoi spiegarci che cos’è l’aborto terapeutico?

Nell’aborto terapeutico il parto viene indotto con le prostaglandine per stimolare le contrazioni, ma la maggior parte delle volte le donne non partoriscono subito alla prima somministrazione, e quindi, dopo aver aspettato due o tre giorni, si ricomincia con la stimolazione: questo ci fa capire quanto il bambino sia fortemente attaccato alla vita. Comunque i bambini muoiono durante il parto, perché soffrono di patologie più o meno gravi e, forzati a nascere prima del tempo, non riescono a sopravvivere. Il parto quindi, invece che portare alla vita, conduce alla morte.

Tu e Michele sconvolti e disperati, influenzati dalle parole dei medici, decidete inizialmente di abortire, e poi cosa succede?

Parlai con una dottoressa che mi spiegò come si sarebbe svolto l’aborto, l’induzione del parto e tutto il resto, ed io piangevo. Forse il Signore già mi stava aprendo gli occhi e ricordo che le dissi: «io questa cosa non la voglio fare». Lei cercò di spiegarmi che era l’unica soluzione percorribile, e comunque mi indirizzò dallo psichiatra per prendere la decisione.

Mi addentrai nel reparto ostetrico, e lì incontrai le mamme che si preparavano all’aborto terapeutico. Non potrò mai dimenticare la scena che mi si presentò davanti agli occhi: mi affacciai in una stanza, come se qualcuno mi stesse chiamando, e lì mi resi conto di quello che avrei subito anche io se avessi abortito. C’era una ragazza giovane già in fase di aborto, sua mamma piangeva, le stava vicino e le teneva la mano, la giovane si disperava nel letto perché aveva dei forti dolori. Allora la madre, che mi aveva sentito parlare con la dottoressa e sapeva che anche io dovevo sottopormi alla stessa procedura, mi guardò e mi disse «anche per mia figlia è un aborto terapeutico», con una tristezza, un’amarezza, una disperazione, che non dimenticherò mai: «non potevamo fare altro», aggiunse, con lo sguardo vuoto e la rassegnazione tremenda di chi non ha speranza.

Lì dentro non c’era Dio, non c’era speranza, perché Dio è Speranza. Questa scena mi convinse che l’aborto terapeutico non era la soluzione, ma che era morte e dolore. Poco dopo incontrai lo psichiatra ma ormai in cuor mio ero convinta, avevo deciso di non abortire, sapevo già quello che dovevo fare.

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Poter aprire gli occhi sull’angoscia e la sofferenza di quella giovane mamma che stava abortendo, è stato quindi un vero dono per te?

Si, è stata una grazia che il Signore ha permesso perché mi rendessi conto con i miei occhi di questo dolore e lo raccontassi. Mentre aspettavo di incontrare lo psichiatra incrociai tante altre mamme come me in attesa di abortire. Ascoltavo i loro discorsi e provavo una grande tristezza. Ad un certo punto mi feci coraggio e parlai con una mamma che aveva una pancia grande come la mia, le chiesi perché si trovasse lì. Mi rispose che la sua bimba aveva la sindrome di Down. In quel momento mi sentii morire dentro, pensai: “ma come, l’aborto terapeutico non si attua solo per i bambini terminali?” Dissi al Signore: “non era meglio che davi a me un figlio Down invece che un figlio che deve morire?”.

Qual è stato il momento in cui hai deciso di non abortire?

Quando lo psichiatra mi fece accomodare, insieme a me entrò anche la mamma in attesa della bimba con la trisomia 21, ci passò un foglio e ci chiese di firmarlo, il consulto specialistico era tutto qui. Allora mi alzai e gli dissi che ero lì per fare una visita. Lui mi guardò come fossi una pazza e mi chiese: «signora lei è venuta per l’aborto terapeutico, si o no?». Risposi di getto: «no, voglio fare una visita, si rende conto che vengo a partorire per dare la morte a mia figlia invece che la vita?». E lui insistendo: «vuole farlo questo aborto?», io a quel punto risposi di no e uscii dalla stanza, mentre il dottore diceva con sufficienza: «tanto tra due giorni lei verrà qui a firmare». Invece il giorno dopo andai a rinunciare alla richiesta di abortire, l’infermiera che incontrai fu felicissima della mia decisione, alzò la cartella in aria e disse ad altra voce: «venite, venite, Mallitti ritira la pratica!», e poi: «brava, fai fare alla natura». Ciò mi fece capire ancora di più che in queste scelte la fede non c’entra. Dio ti dà la forza, ma non bisogna essere credenti per rifiutare l’aborto, l’essere umano dentro di sé conosce la verità. Uscii dal reparto libera da quel peso di morte, l’avevo buttato alle mie spalle, non sapevo quello che sarebbe successo ma ero felice e sicura che il Signore mi avrebbe accompagnato.

Titti come è stata accolta la tua decisione?

Mi piombarono addosso moltissime critiche: “Sei una pazza e un’egoista”, “Vuoi far soffrire tua figlia”, “Porti nella pancia una bambina che deve morire”. Io però dico sempre che sono passata da una profonda sofferenza ad una bellissima gioia, l’esperienza di Benedetta è la grazia e la gioia della mia vita. Se non avessi sofferto così tanto non avrei mai assaporato una dolcezza così profonda. Se la sofferenza è necessaria per gustare quello che ho provato al funerale di Benedetta, allora la sofferenza non è un male come ci dicono, come ce la vogliono raccontare, no, è buona.

Caratterialmente io sono molto indecisa e insicura, ed è stato un dono del Signore sentire dentro di me la certezza della mia scelta al punto di difenderla contro tutti, anche contro mio marito che in quel momento, a causa della sofferenza, voleva che abortissi. Non dimenticherò mai le parole di un sacerdote che mi disse: «Devi essere fedele a tuo marito in tutto, tranne che nel peccato». Era la cosa giusta, mi sentivo con Dio, stavo compiendo la sua volontà. Non mi importava di chi mi diceva che era la scelta sbagliata, mi importava solo del Signore, del “sì” che gli avevo detto e che volevo portare fino in fondo. Avrei sofferto, avrei visto mia figlia morire, ma Lui mi aveva fatto una promessa: «ti consolerò, non ti abbandonerò», e così è stato.

Come sei riuscita in questo momento di prova a restare in comunione con tuo marito che ancora non aveva accettato la tua scelta?

La fase iniziale non fu facile, oltre all’immenso dolore della notizia la questione dell’aborto ci faceva discutere e soffrire. Pensammo che il nostro matrimonio fosse finito. Michele non voleva accogliere nostra figlia, era spaventatissimo. Una donna forse è più preparata al dolore, alla sofferenza, certe cose già le sa.
Ho compreso lo strazio che provava e non l’ho mai giudicato perché era un papà che stava soffrendo. Come coppia ci siamo affidati ad un padre spirituale, don Antonio, che ci ha offerto un aiuto indispensabile. Da soli sarebbe stato impossibile e per questo ci siamo lasciati avvolgere dall’amore di tutti. La vicinanza e la preghiera dei nostri fratelli di comunità, di mia mamma, di mia sorella e di tutte le persone che hanno pregato per noi sono state preziosissime. Mi ricordo che chiamai uno ad uno 150 conventi di clausura in tutta Italia per chiedere preghiere per noi e per la guarigione di nostra figlia.Mio marito aprì gli occhi durante un colloquio con don Antonio, fu un momento bellissimo ed emozionante. Abbracciò la croce, accettò nostra figlia e decise che si sarebbe chiamata Benedetta, perché per la nostra famiglia era una benedizione.

Raccontaci quali emozioni avete provato alla nascita di Benedetta

Benedetta nacque il 26 ottobre 2012 di parto cesareo, i medici mi avevano detto che sarebbe stata un mostro, e invece era bellissima, assomigliava a mio marito, piangeva e respirava da sola. Prima dell’intervento io e Michele eravamo andati a messa insieme ad un nostro fratello di comunità, per prepararci ed essere pieni di Gesù. All’ospedale la mattina ci accolse don Antonio che pregava per noi e ci sosteneva. Fu lui a battezzare Benedetta, commosso e felice, con il personale del reparto riunito, la madrina e mio marito. Michele per due giorni le ha cantato i salmi tenendola per mano in terapia intensiva. Voleva farle sentire tutto il suo amore e farsi perdonare per non averla accettata fin da subito. Quando il secondo giorno i medici mi dissero che le restavano poche ore, chiesi a Franca, un’infermiera che era con me a sostenermi e consolarmi, di portarmi Benedetta. Più volte avevo detto al Signore di non farla morire sola, di farmi il dono di essere con lei in quel momento. E così avvenne. La presi tra le mie braccia e le sussurrai: «Benedetta, amore di mamma, se vuoi andare vai. Noi siamo pronti, vai da Gesù e digli che siamo felici di aver messo al mondo una bambina speciale come te, che ci ha insegnato cos’è l’amore». In quel momento entrò in stanza Michele, e Benedetta spirò l’ultimo respiro.

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Benedetta sale al cielo il 28 ottobre, due giorni dopo la sua nascita, come ricordi il giorno del funerale?

Il funerale è stato bellissimo, una festa insieme a tantissimi amici. Nella tristezza provai una grandissima felicità. Nessuno ci diceva “condoglianze” ma tutti ci ringraziavano, e noi rispondevamo: “grazie a Dio”. Io e Michele siamo ”i peggio”, né speciali, né eroi, né bravi cristiani, anzi. Abbiamo solo spalancato le porte a Cristo e detto il nostro “si”. Ci sono stati litigi, pianti, incomprensioni, ma se ce l’abbiamo fatta noi ce la possono fare tutti, tutti possono provare la gioia che ho provato io al funerale di mia figlia. Questa gioia è un dono di Dio, che mi ha ricoperta e letteralmente assalita. Non avrei mai creduto di poter assistere al funerale della mia piccola, dicevo a mio marito: “non voglio venire perché quando vedrò quella bara bianca mi sentirò morire, mi renderò conto che mi è morta una figlia, e tutte le cose che abbiamo vissuto durante la gravidanza e nei suoi due giorni di vita penserò che me le sono immaginate”. E invece quel funerale è stata la Pasqua della mia vita. Quando entrò la bara di Benedetta in chiesa, i miei fratelli di comunità stavano cantando

, in quel momento ho provato una gioia e una tenerezza, non umane, perché era l’esultanza di chi muore e vede la tomba vuota. Benedetta era in cielo, più viva di me ed io ho avuto la certezza della vita eterna. Quel funerale è stato il memoriale della mia vita e dopo quattro anni continuo a sentire la stessa gioia, non mi ricordo la sofferenza e il dolore, questa è la grazia che mi ha fatto il Signore.

Hai creato una pagina su Facebook che si chiama “No aborto terapeutico”, dove dai testimonianza della vostra storia e di altre simili, che oggi possono avvalersi dell’aiuto della Comfort Care. Cos’è la Comfort Care?

Mentre facevo delle ricerche per la mia pagina Fb lessi un articolo della dottoressaElvira Parravicini, neonatologa al Columbia University Medical Center di New York. Grazie a una “Dio-incidenza” ci conoscemmo e, attraverso lei e la disponibilità di tantissime persone, abbiamo introdotto la Comfort Care nell’ospedale Villa Betania di Napoli, dove avevo partorito Benedetta, protocollo di cura che poi si è esteso ad altre strutture ospedaliere del Sud-Italia. La Comfort Care è un percorso di accompagnamento per le famiglie in attesa di un figlio a cui viene diagnosticata una condizione del nascituro assolutamente incompatibile con la sopravvivenza. Si compone di tre elementi essenziali: il nutrimento del neonato attraverso le vie e i mezzi più adeguati rispetto alle sue problematiche fisiche; il calore inteso come la messa a disposizione – al posto di un ricovero in terapia intensiva – di un ambiente accogliente e riservato dove la famiglia nucleare e allargata, compresi i bambini piccoli, possono accogliere e celebrare con serenità la nascita di una nuova vita accompagnandola dolcemente fino alla morte. In questo ambiente è possibile celebrare il Battesimo o i diversi riti propri di ciascuna religione. Il terzo cardine è rappresentato dal trattamento del dolore del neonato attraverso i farmaci più adatti alla sua patologia, in modo da fare di tutto per evitare che soffra, ed invece possa godere per quanto possibile del tempo di vita che Dio gli ha concesso.

Al posto dell’aborto terapeutico in cui il nascituro muore nella più profonda solitudine – a cui viene “costretta” anche la madre – Titti ci sprona a scegliere la bellezza di celebrare la vita e non la morte,accompagnando poi un figlio irrimediabilmente malato – con dolcezza e circondato dall’amore e dal calore dei suoi familiari – alla sua nascita al Cielo.

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