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Comunità indigena venezuelana muore di Aids, e l’ha scoperto un sacerdote

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Pablo Cesio - pubblicato il 02/12/16

“Signori, state morendo di Aids”, ha sentenziato Felipe González dopo che gli abitanti della comunità indigena situata sul delta dell’Orinoco (Venezuela) gli avevano descritto cosa provavano prima di morire.

Febbre, diarrea, debolezza e vertigini erano tra i sintomi che gli indigeni, appartenenti al popolo warao, gli nominavano, ma mai facendo riferimento alla malattia che li colpiva: l’Hiv-Aids.

Da quel momento, la frase del sacerdote è diventata ben nota nella regione ed è stata riportata da vari media.

Secondo i medici della zona, gli indigeni si accorgono di quanto sia letale la malattia solo quando il corpo inizia a cedere.

Il medico Luis José Rodríguez ha fornito spiegazioni simili a quelle del sacerdote, raccontando il momento in cui ha dovuto dare la notizia a una donna membro di quella comunità.

“Le ho chiesto: ‘Sai cos’è l’Hiv-Aids’? Mi ha detto: ‘No, non lo so’. Analizzando il suo passato, si è scoperto che il marito precedente era morto di Aids”, riferisce un reportage del quotidiano colombiano El Espectador.

Nel 2013, i ricercatori dell’Istituto Venezuelano di Ricerche Scientifiche e dell’Istituto di Biomedicina dell’Università Centrale del Venezuela si sono incaricati di realizzare un rapporto sull’Hiv e i warao, concludendo che all’epoca il 9,55% degli abitanti della comunità aveva contratto l’Hiv.

Lo studio ha anche dimostrato che in quella comunità la trasmissione del virus era più letale e più rapida (cosa che può accadere quando una persona si infetta con più di un ceppo del virus). È stato inoltre scoperto che il virus era più diffuso tra gli uomini tra i 18 e i 30 anni che tra le donne.

Tra le ipotesi per la rapida diffusione del virus, secondo Rodríguez, c’è il frequente andirivieni dei membri di questa comunità a una discarica dello Stato di Bolívar chiamata Cambalache. Buona parte dei warao che vi si recano torna con l’Hiv.

Un altro dei motivi possibili può essere il contatto sessuale tra i membri della comunità e i marinai che arrivano da luoghi lontani e spesso sono portatori di varie malattie e non vengono sottoposti a controlli sanitari.

Si prende in considerazione anche una tradizione della comunità indigena in cui i più benestanti includono nella propria struttura familiare un seconda moglie.

Di fronte a questa situazione sono state chieste, finora con scarsi risultati, misure sanitarie, al di là delle riunioni sporadiche con le autorità e di alcuni incontri con i leader comunitari.

I nuovi portatori, con un ceppo più aggressivo, stanno morendo in cinque anni. “Sono qui da sette anni, ho sentito che hanno l’Hiv e non li ho visti ricevere cure. Ogni anno ne muoiono quattro o cinque”, ha affermato un professore di una scuola locale in alcune dichiarazioni riferite da El Espectador.

Felipe González, un uomo vicino ai warao

La sentenza sul male che affligge il popolo venezuelano pronunciata da González ha avuto forte eco. Quando l’ha esposta era vicario apostolico di
Tucupita, e per via di questo incarico aveva un legame con gli indigeni warao.

In un’occasione, durante una serie di visite pastorali, ha avvertito della precarietà in cui vivevano molti membri di questa comunità, senza servizi di base come l’acqua potabile.

All’epoca chiese la creazione di alternative economiche per un’educazione più produttiva di queste comunità, secondo quanto ha espresso in un’intervista concessa al portale El Guardián.

Nella sua Messa di congedo come vicario apostolico di Tucupita, González ha pronunciato una breve omelia in cui ha ringraziato Dio per le persone che lo hanno accompagnato nel suo lavoro apostolico.

Come ha pubblicato la diocesi di Valle de Pascua, “al momento dell’offertorio i giovani della parrocchia hanno presentato una danza nella quale portavano sulle spalle una guajibaca (una specie di canoa dei warao). Sopra c’era una bambina indigena warao vestita con un abito dei cappuccini che stringeva tra le mani una sorta di rete da pesca. Intorno a lei c’erano dei giovani vestiti di azzurro, che simboleggiavano l’acqua del fiume”.

“Mentre procedeva, persone della comunità si univano alle reti da pesca con il motto ’60 anni tessendo reti di vita e prendendo il largo’”.

“Durante l’elevazione del Corpo e Sangue di Cristo, il popolo di Dio ha ripetuto in warao: KA ROTU KA IDAMO HASE UITU IJI HA KOTAI,KIRITO, DIOSO NOME A UKA HITO UITU, che significa ‘Signore mio e Dio mio, Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio Vivo’. Anche il canto di Comunione è stato interpretato in lingua warao”.

González è stato ordinato sacerdote il 15 marzo 1970 per l’Ordine dei Frati Minori Cappuccini, nel quale ha iniziato il percorso religioso nel 1962.

Dal 2014 è vicario apostolico di Caroni, nel sud del Venezuela.

[Traduzione dallo spagnolo a cura di Roberta Sciamplicotti]

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