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Un martire senza carnefici

Vatican Insider - pubblicato il 01/12/16

Charles de Foucauld è la figura che insegna ai battezzati l’autentica natura del martirio cristiano, troppo spesso oggi distorta nell’ideologia del «persecuzionismo».Fratel Michael Davide Semeraro, monaco benedettino e maestro di spiritualità, offre una prospettiva originale sull’esperienza del “piccolo fratello” e sulla sua eredità, a cento anni dalla morte. La figura di de Foucauld, come spiega nel suo libro «Charles de Foucauld. Esploratore e profeta di fraternità universale» (San Paolo, 2016) non è irrilevante nella temperie ecclesiale contemporanea, segnata da un rapporto per molti problematico, se non conflittuale, con l’islam.  

L’esperienza di fratel Carlo è utile a riconsiderare oggi il senso e il significato profondo del martirio cristiano: «In lui è vissuto senza la necessità di cercare il carnefice. Solo così si esce dal circolo vizioso della vendetta e si entra in quella del Vangelo. Il carnefice non è necessario al martire cristiano: ciò che conta è la disponibilità a dare la vita fino in fondo», spiega il Benedettino a Vatican Insider.  

Sta tutta qui la sottile differenza, che sottrae le vicende dei martiri a quanti le usano come pretesto per mobilitazioni identitarie, o come spunto di campagne d’indignazione, impostate in chiave cultural-politica.  

Troppe volte oggi il martirio subisce una «modificazione genetica», quando le sofferenze dei fedeli vengono strumentalizzate per logiche di potere o perfino di business. O quando l’approccio con cui le si tratta è quello della pura «rivendicazione dei diritti», che resta confinata nell’alveo della Chiesa «modello Amnesty».

«Charles de Foucauld rappresenta per la storia della Chiesa un punto di non ritorno: la sua profezia è caduta nel deserto del Sahara come l’evangelico chicco di grano, il 1° dicembre 1916. Ha aperto nuove piste e nuovi cammini, ben prima che il Concilio Vaticano II ne prendesse coscienza», spiega Semeraro. 

Il benedettino rintraccia nella sua vita riferimenti a Benedetto da Norcia e a Francesco d’Assisi: «Della tradizione benedettina, vissuta nel suo tempo di vita trappista, custodisce l’aspetto contemplativo di attenzione a Dio e ai fratelli. Di Francesco d’Assisi imita la passione per un continuo ritorno al Vangelo sine glossa e la condizione di minorità, che permette di fare sempre il primo e incondizionato passo verso l’altro».  

E se per il Santo di Assisi il viaggio verso la tenda del Saladino rappresentò un momento importante del suo cammino interiore, «l’incontro con l’islam fu, per il visconte Charles de Foucauld, un appello all’interiorità e alla trascendenza. Sono proprio i musulmani, con la loro attitudine di preghiera davanti all’Altissimo, a permettergli di riscoprire la sua fede battesimale». 

Cosi l’esploratore geografico-militare si trasforma in un «esploratore umano» che cerca di adottare il punto di vista dell’altro con umiltà autentica. È un processo di spoliazione di sè: «Il primo passo è imparare dagli altri e imparare la lingua dell’altro, per conoscerne la vita, le emozioni, i desideri, il modo in cui è abituato a percepire il mistero della vita, con le sue gioie e fatiche. Fratel Carlo scrive nel suo diario: per fare del bene alle anime, bisogna poter parlare ad esse, e per parlare del buon Dio e delle cose interiori, bisogna saper bene una lingua». 

«In questo senso – prosegue Semeraro – fratel Carlo riprende l’intuizione di grandi missionari come Cirillo e Metodio e come Matteo Ricci. Per questo impara la lingue dei tuareg, prepara dei dizionari, raccogliere centinaia di poesie attraverso cui si trasmette la sapienza di questi popoli». 

Nella relazione con il prossimo non parte pensando di essere depositario della verità: «La verità è una persona, Cristo Gesù, ed è solo la conformazione al suo modo di parlare, di agire, di farsi presente ai bisogni dell’altro che permette di essere riconosciuti e, in certo modo, amati».

A distanza di decenni, questa medesima struttura di pensiero e di azione si riprodurrà a Tibhirine, nei monaci trappisti uccisi nel 1996 a Notre Dame de l’Atlas. E nel terzo millennio, dopo l’attentato delle Torri gemelle e gli attacchi terroristici in Europa, l’esperienza di fratel Carlo, secondo Semeraro, può aiutare i cristiani «a leggere con uno sguardo di fede la presenza degli “altri”, delegittimando quello che molti considerano come uno scontro con la civiltà islamica».

Uno dei messaggi forti e significativi di fratel Carlo tocca, dunque, l’approccio verso l’islam: «Il beato oggi testimonia la piena adesione al Vangelo nel suo esporsi unilateralmente, cioè anche in mancanza di reciprocità, alla relazione fraterna con i musulmani».

Nel profondo deserto algerino, dove si compirà la sua vita terrena, fratel Carlo legge il Vangelo e adora la presenza di Cristo nell’Eucaristia non per schermirsi con la corazza di un’identità forte e contrapposta, ma per aprirsi a una fraternità sempre più universale.

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