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Apologeti, catechisti, teologi: svegliatevi!

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James Steidl - Shutterstock

Aleteia - pubblicato il 01/09/16

Uno studio sui giovani che abbandonano la Chiesa mostra che le loro motivazioni sono poco convincenti e si possono confutare facilmente

di Monsignor Robert Barron

Dopo aver letto l’ultimo studio Pew sul perché i giovani abbandonano la pratica attiva del cristianesimo confesso di essere rimasto esasperato. Non dubito affatto della sincerità di chi ha risposto al sondaggio, ma le ragioni che offre per l’abbandono del cristianesimo non sono molto convincenti. Qualsiasi teologo, apologeta o evangelista che meriti questo titolo vi potrebbe rispondere con grande facilità.

E questo mi ha portato alla conclusione che “abbiamo trovato il nemico, e siamo noi”. Negli ultimi 50 anni o giù di lì, i pensatori cattolici hanno ampiamente abbandonato l’arte dell’apologetica, e hanno fallito (e qui offro un j’accuse a molti nelle università cattoliche) nel ricorrere alle ricchezze della tradizione intellettuale cattolica per fermare i critici della fede. Non biasimo gli avatar del secolarismo per aver cercato attivamente di sminuire il cristianesimo; dopo tutto, è il loro lavoro. Biasimo invece gli insegnanti, i catechisti, gli evangelisti e gli accademici all’interno delle Chiese cristiane per non aver fatto abbastanza per tenere impegnati i nostri giovani. Studi come questo dimostrano che a meno che noi credenti non ci gettiamo seriamente nel gioco a livello intellettuale perderemo i nostri ragazzi.

Permettetemi di analizzare brevemente alcune delle ragioni principali addotte come motivazioni per l’abbandono del cristianesimo. Molti, evidentemente, hanno sentito che la scienza moderna in qualche modo mina le affermazioni della fede. Una persona che ha risposto ha detto: “Il pensiero razionale fa uscire la religione dalla finestra”, mentre un altro ha lamentato la “mancanza di qualsiasi sorta di prova scientifica dell’esistenza di un creatore”. Beh, sarebbe una sorpresa enorme per San Paolo, Sant’Agostino, San Giovanni Crisostomo, San Girolamo, San Tommaso d’Aquino, San Roberto Bellarmino, il beato John Henry Newman, G.K. Chesterton, C.S. Lewis e Joseph Ratzinger – tra le personalità più brillanti che la cultura occidentale abbia mai prodotto – il fatto che la religione e la ragione siano ritenute in qualche modo incompatibili. E per concentrarsi più precisamente sulla questione della “prova scientifica”, le scienze, ordinate per loro natura e metodo a un’analisi di oggetti e questioni empiricamente verificabili all’interno dell’universo, non possono nemmeno in via di principio affrontare questioni relative a Dio, che non è un essere nel mondo, quanto piuttosto la ragione per la quale il regno finito esiste. È semplicemente impossibile che ci sia una prova o un’argomentazione “scientifica” che affermi una cosa o l’altra in relazione a Dio. Attenzione: ciò non significa sostenere che non ci siano giustificazioni razionali del fatto di credere in Dio. Nel corso dei secoli, infatti, i filosofi hanno articolato dozzine di dimostrazioni di questo tipo, che hanno un’enorme efficacia probatoria, soprattutto quando considerate insieme. Quello che manca a queste argomentazioni, anche se è triste da dire, sono difensori convinti e articolati all’interno del mondo accademico e tra gli insegnanti, i catechisti e gli apologeti.

Uno dei giovani ha risposto al sondaggio usando la formula resa famosa da Karl Marx: “La religione sembra essere l’oppio dei popoli”. La formulazione di Marx, ovviamente, è un adattamento dell’osservazione di Ludwig Feuerbach per cui la religione è una proiezione dell’immagine di noi stessi idealizzata. All’inizio del XX secolo, Sigmund Freud ha adattato ulteriormente l’idea di Feuerbach sostenendo che la religione era come un sogno ad occhi aperti, una fantasia che realizza i desideri. Questa linea di pensiero è stata adottata in modo massiccio dai cosiddetti “nuovi atei” del nostro tempo, e lo verifico regolarmente nei forum.

Tutto quello a cui porta un approccio di questo tipo, alla fin fine, è una psicologizzazione paternalistica della credenza religiosa, ma è del tutto vulnerabile a un contrattacco tu quoque (fai la stessa cosa). Penso che si possa benissimo dire che l’ateismo è una fantasia che realizza i desideri, proprio nella misura in cui permette libertà e autodeterminazione totale: se non c’è un Dio, se non c’è un criterio morale ultimo, posso fare ed essere tutto ciò che voglio. In poche parole, l’aspetto psicologizzante funziona altrettanto efficacemente nel senso opposto, e allora le due accuse più o meno si cancellano a vicenda – e questo dovrebbe costringerci a tornare alle argomentazioni reali a livello obiettivo.

Una terza ragione citata comunemente per l’abbandono delle Chiese cristiane è il fatto che, come ha affermato una persona, “i cristiani sembrano comportarsi piuttosto male”. Dio sa che gli scandali degli abusi sessuali riguardanti membri del clero degli ultimi 25 anni hanno fornito un notevole sostegno a questa argomentazione, già nutrita dai soliti sospetti su Inquisizione, crociate, persecuzione di Galileo, caccia alle streghe, eccetera. Ovviamente potremmo esaminare ciascuno di questi casi, ma al nostro scopo mi limiterò ad ammettere che sì, nel corso dei secoli moltissimi cristiani si sono comportati male, ma perché, ci si chiede, questo dovrebbe andare contro l’integrità e la rettitudine del cristianesimo? Moltissimi americani hanno fatto cose orribili, spesso in nome dell’America. Si pensi ai proprietari di schiavi, alle guardie della prigione di Abu Ghraib, eccetera. Queste cose provano ipso facto che gli ideali americani sono meno degni di lode o che il sistema americano in sé è corrotto?

Vari giovani hanno anche detto di aver abbandonato le Chiese cristiane perché “la religione è la maggiore causa di conflitto al mondo”. Ormai si sente dire talmente spesso – soprattutto sull’onda dell’11 settembre – che tendiamo a considerarla una cosa evidente, quando in realtà è un’invenzione della storiografia dell’epoca illuminista. Voltaire, Diderot, Spinoza e molti altri nel XVII e XVIII secolo volevano minare la religione e non hanno trovato modo migliore per farlo che ritenere il cristianesimo la fonte della violenza. Attraverso innumerevoli canali, questo approccio è penetrato nella coscienza generale, ma non regge di fronte a uno scrutinio serio. Nella loro ricerca esaustiva sulle guerre della storia umana (The Encyclopedia of Wars), Charles Phillips e Alan Axelrod dimostrano che meno del 7% delle guerre può essere credibilmente attribuito alla religione.

Le guerre più sanguinose della storia, quelle del XX secolo, che hanno provocato oltre 100 milioni di morti, non hanno praticamente nulla a che fare con la religione, mentre si potrebbe avanzare un’argomentazione molto persuasiva per la quale il secolarismo ideologico e il nazionalismo moderno sono le fonti dei maggiori spargimenti di sangue. E tuttavia il pregiudizio, promosso inizialmente dai filosofi illuministi, stranamente persiste.

Uno studio Pew precedente ha mostrato che per ogni persona che si unisce oggi alla Chiesa cattolica ce ne sono sei che l’abbandonano, e che molte di queste ultime sono giovani. Questo studio più recente indica che sono le obiezioni intellettuali a spiccare quando si chiede a queste persone perché abbiano abbandonato la propria fede. Spero fortemente che insegnanti, catechisti, teologi, apologeti ed evangelisti possano svegliarsi e fare qualcosa al riguardo.



Il vescovo Robert Barron è vescovo ausiliare dell’arcidiociesi di Los Angeles e fondatore dei Ministeri cattolici Word on Fire.

[Traduzione dall’inglese a cura di Roberta Sciamplicotti]

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