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La decisione di questa 14enne è un suicidio assistito o una scelta naturale?

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Jerika Bolen/Facebook

Elizabeth Scalia - pubblicato il 05/08/16

Jerika Bolen vuol staccare il respiratore. Il suo destino riguarda tutti noi

Non ha mai camminato e può utilizzare solo le mani. Nei “giorni buoni”, il suo livello di dolore è 7 su 10. Anche se ha una famiglia unita e viene assistita a livello infermieristico, ha deciso di averne abbastanza. Dopo un’estate di divertimento che include un periodo presso il campo estivo per malati di distrofia muscolare e un ballo di fine anno, il desiderio di Jerika Bolen è entrare in un hospice, scollegare il ventilatore che attualmente deve usare 12 ore al giorno per rimanere in vita e aspettare di morire.

Jerika Bolen ha 14 anni. Per alcuni è diventata il nuovo volto del movimento a favore del suicidio assistito, che in alcuni Paesi afferma che se si ha una malattia molto grave e si soffre moltissimo si dovrebbe avere la possibilità di scegliere le circostanze della propria morte, in altri ritiene che anche essere depressi sia un buon motivo per scegliere di morire.

Jerika non è depressa, e la sua vita non è priva di amore e amicizie: al contrario, la ragazza è molto amata da amici e familiari. Soffre molto, però, e la sua è una condizione degenerativa; anche se non ci sono stati forniti tutti i dettagli medici del caso, ci è stato detto che alla fine non riuscirà più a parlare e che il tempo in cui deve stare attaccata al ventilatore aumenterà fino a quando non ne avrà bisogno per tutta la giornata. Sta morendo, ma la sua è una morte lenta.

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Si può avere la tentazione di inserire Jerika Bolen nella classifica di altre persone che di fronte a una diagnosi di condizione incurabile hanno deciso di affrettare la propria morte, controllandone i termini anziché essere controllate dalla propria debilitazione. Jerika, tuttavia, non chiede una pillola o un’iniezione per porre fine alla propria vita. Vuole semplicemente rinunciare a usare un apparecchio che le è necessario per rimanere in vita.

Molti diranno che non sono affari degli altri, ma una situazione come questa riguarda tutta l’umanità. Soprattutto in un’epoca in cui la biotecnologia sta perdendo rapidamente di vista ciò che distingue gli esseri umani dalle altre creature, gli esseri umani devono guardare alle questioni bioetiche e cercare di trovare il confine tra ciò che rende onore alla totalità di corpo, mente e anima della persona e ciò che sovverte l’umano e tradisce il Creatore.

Gli esperti di bioetica al corrente dei dettagli medici dovrebbero esprimere la propria opinione sulla storia di Jerika Bolen, di modo che tutti noi potessimo comprendere chiaramente che c’è un confine tra il suicidio (assistito o meno) e permettere che la vita compia il suo corso, e che se la Chiesa si oppone decisamente alla prima ipotesi abbraccia amorevolmente la seconda. Accettando la vita e la morte, la Chiesa riconosce che non ogni misura a sostegno della vita è garantita in qualsiasi situazione, e che c’è una differenza tra la cura ordinaria dovuta a ciascuno e le cure straordinarie, che potrebbero essere scelte liberamente o liberamente rifiutate.

L’insegnamento cattolico favorisce sempre ciò che è naturale rispetto a ciò che è artificiale, e questo può valere anche per la respirazione artificiale. Papa Pio XII ha affermato che in casi disperati cure come i respiratori vanno al di là dei mezzi ordinari ai quali si è tenuti. Il pontefice parlava soprattutto di questioni di rianimazione d’emergenza, ma in una bozza del 1992 di una dichiarazione della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede si legge che si deve tener conto delle condizioni della persona, soprattutto se morente – ad esempio chi è allo stadio finale di una malattia o si trova nello stato comunemente definito vegetativo permanente -, per decidere di non continuare o rinunciare alle cure che sostengono la vita.

La Congregazione definiva poi più chiaramente la persona morente come quella che non ha ragionevoli speranze di recupero, avvertendo che la riflessione razionale sul significato della vita umana in tutte le sue dimensioni è indispensabile per formulare un giudizio finale sull’uso della tecnologia per tenere in vita le persone.

Quando papa San Giovanni Paolo II stava per morire nel marzo 2005, le sue cure hanno incluso per un po’ un sondino nasogastrico per migliorare l’apporto calorico e promuovere un recupero delle forze. Quando lui e quanti lo circondavano hanno stabilito che non ci sarebbe stato ulteriore recupero, il sondino è stato rimosso, amministrando l’idratazione fin quando il pontefice ha esalato l’ultimo respiro. Non è stato fatto niente né per affrettare né per impedire la sua morte naturale.

Essenzialmente, per quanto possiamo dire in base agli scarni dettagli medici che ci sono stati forniti nei resoconti della stampa, per Jerika Bolen non ci sarà recupero, e quindi cerca di fare lo stesso: porre fine al trattamento, mettendo da parte la macchina che finora le ha prolungato la vita ma che non le offre più una promessa di aiuto e permettendo che avvenga la sua morte naturale.

Noi che crediamo nella santità della vita affermeremmo che finché vive ha l’opportunità di amare e di essere amata – un’opportunità fondamentale per tutto il resto, e quindi un vero scopo per scegliere di vivere –, ma crediamo anche che non ci sia alcun imperativo morale di usare le macchine per allontanare la morte ad ogni costo semplicemente perché sono disponibili a questo scopo.

È una domanda per i bioeticisti, sicuramente, ma la storia della vita di Jerika Bolen e il suo desiderio di far sì che il suo corpo faccia ciò che deve senza l’assistenza straordinaria di un respiratore deve farci fermare e pensare meglio a quello che è un “suicidio assistito” attivo e a quello che è invece un assenso passivo alla natura.

Continuiamo a porci queste domande e a studiare gli insegnamenti della Chiesa, e preghiamo per Jerika Bolen e per la sua famiglia. Se volete inviare un biglietto o una lettera a Jerika, potete scrivere a questo indirizzo:

Jerika Bolen
PO Box 2577
Appleton WI 54912
USA

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Elizabeth Scalia è responsabile dell’edizione inglese di Aleteia

[Traduzione dall’inglese a cura di Roberta Sciamplicotti]

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