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I volti di Lesbo raccontano storie che non augurereste neanche ai vostri nemici

MACEDONIA-EUROPE-MIGRANTS

AFP PHOTO / NIKOLAY DOYCHINOV

Edward Mulholland - pubblicato il 26/07/16

Il campo profughi di Kara Tepe è pieno di persone che hanno sofferto tragedie e terrore. Nel dolore, hanno trovato fraternità

Adoro la rubrica “Faces in the Crowd” di Sports Illustrated. Dà un volto agli atleti dilettanti, che spesso vivono nel totale anonimato, e mostra i loro risultati. Non che si parli poi così male di loro oggigiorno, ma è comunque bello vedere che questi atleti, molti dei quali giovani e promettenti, raggiungono gli obiettivi preposti.

Si parla invece molto male degli immigrati originari da paesi musulmani. Posso comprendere alcune posizioni. E rispetto il fatto che un paese abbia il diritto di proteggersi e penso che gli Stati Uniti debbano fare più controlli. Ma quando qualcuno scappa dal pericolo, penso che bisogni tendere una mano e offrire aiuto e soccorso. I residenti del campo di Kara Tepe hanno una lista con venti nazioni alle quali poter richiedere asilo. Gli Usa non sono nella lista (non in quella di questo campo, almeno).

L’altro giorno si è fermato davanti al campo un autobus pieno di turisti, per permettere loro di curiosare nei pressi dell’ingresso e magari intravedere un rifugiato. Mi ha disgustato. Cosa siamo diventati? La loro libertà è stata violata da veri e propri mostri, ma ora sono i turisti a offendere la loro dignità con le loro foto compulsive, come se fossero dei rari esemplari umani. Comprendo la curiosità, ma voi vendereste i biglietti per assistere all’operazione al cuore di vostro nonno? Fareste pagare ai vostri amici per pranzare con il vostro exchange student? Spero di no. Questo campo è di tutto, ma di certo non è un’attrazione turistica.

C’è tantissima gente, questo è poco ma sicuro. In questo mese che sto passando qui, la popolazione oscilla tra le seicento e le settecento persone. È tanta gente. Ma sono individui. Hanno dei volti.

E a proposito di volti che emergono dalle folle, ecco alcuni frammenti di storie che non augurereste neanche al vostro peggior nemico. Storie di persone con le quali condividiamo un nemico tremendo: il male portato dall’uomo contro l’uomo.


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Su Aleteia abbiamo già parlato di Faris, l’ex proprietario di un negozio ridotto in polvere dall’ISIS, un ragazzo tendenzialmente ottimista. Oggi l’abbiamo incontrato di nuovo, aveva lo sguardo contrito. Quando gli abbiamo chiesto se fosse tutto a posto, ha detto di avere “problemi grossi”. Un amico lo ha contattato dalla Siria, dicendo che l’aviazione russa gli ha bombardato la casa e che i suoi quattro bambini sono morti. È preoccupato per l’amico, perché è convinto che non lascerà mai la Siria ed è quindi in grave pericolo. Spero che questo ti faccia riconsiderare ogni “problema” che pensi di avere. Eppure Faris mi ha invitato di nuovo a mangiare con lui. Niente cura l’indifferenza umana meglio della solidarietà. E quando il riso è buono come lo cucina lui, la cura è ancora più rapida.

Poi c’è Sajab, un tecnico del suono dall’Afghanistan che “è incappato in alcuni problemi di sicurezza”, senza dire niente di più. Lui parla Dari, una delle lingue principali dell’Afghanistan. L’altra lingua è il Pashtun. Gli ho fatto notare che nessuno sembra parlare Pashtun nel campo. Si è messo a ridere e ha detto: “Tutti i talebani sono Pashtun, è la gente che parla Dari ad avere problemi!” Gli ho fatto l’occhiolino e ho chiesto: “Problemi di sicurezza?”. Lui ha annuito, non riuscendo a trattenere un sorriso a trentadue denti.

Ho incontrato anche Petit Jean, un ragazzo di 13 anni dal Congo la cui famiglia è arrivata in Turchia per accedere in Europa. Sono considerati migranti economici, piuttosto che richiedenti asilo per motivi politici, dunque la loro permanenza ad Atene sarà dura. Petit Jean indossava una maglietta dei Kansas City Royals, attirando la mia attenzione.

Ma la storia più bizzarra che ho trovato questa settimana è quella di quattro donne, arrivate nel campo pochi giorni fa. Sono della Repubblica Dominicana. Sì, avete letto bene. Provengono da un paese dei Caraibi. Come diamine hanno fatto a imbarcarsi per Lesbo?

Erano in cerca di lavoro e sono state contattate da un uomo di un’agenzia che assume persone per lavorare all’estero. Sarebbero dovute andare in Turchia per lavorare in un nuovo ristorante a tema caraibico. Giunte ad Istanbul hanno iniziato a dare una mano a sistemare il locale. C’era qualcosa che non tornava, ma dopo aver parlato tra di loro hanno deciso di lasciar perdere quelle sensazioni. Dopotutto la lontananza da casa rende le persone stanche, e con il tempo avrebbero potuto superare le stranezze percepite. Ma poi è comparsa un’altra ragazza che le ha avvertite del fatto che quello per il quale stavano lavorando era un centro di prostituzione, e che sarebbero state coinvolte in situazioni molto brutte. Erano finite in un giro gestito dalla criminalità organizzata, e in quello stesso giorno sono dovute fuggire. Non avevano né portafogli né passaporto con loro e non sapevano di chi fidarsi, dunque non hanno neanche provato a trovare l’ambasciata del proprio paese. Sono semplicemente fuggite. Dopo una settimana, erano sul mare verso Lesbo e ora sono le ultime arrivate a Kara Tepe, ad eccezione di un bambino che è nato ieri.

Il traffico di esseri umani è reale. È insidioso. Queste donne hanno avuto il coraggio e la fortuna di poter scappare. Molte altre non sono così fortunate. Ma queste nuove amiche non hanno neanche un futuro certo. Sono in attesa, come tutti gli altri. Mi hanno chiesto una cosa a cui sono riuscito a rispondere positivamente. Volevano andare a Messa, domenica. Fortunatamente per tutti noi, ogni domenica di questo mese c’è una Messa a Lesbo (non è sempre così) e mi assicurerò che loro abbiano un modo per essere lì.

Qui i volti che emergono dalla folla non mostrano una lista di obiettivi raggiunti, bensì una serie di esperienze fatte di tragedie e terrore. Ma nel dolore c’è un senso di fraternità. Tutti sanno di condividere con gli altri delle storie tragiche, altrimenti non sarebbero lì.

Al porto di Mitilene c’è una statua di una donna con le braccia in alto. Ha una corona di fiori. “Anche noi abbiamo una Statua della Libertà”, mi ha detto scherzando uno degli abitanti locali. La corona è porta da Mitilene, rappresentata come una donna, ai suoi figli caduti nel conflitto del 1919-1922 contro la Turchia. La statua guarda verso il porto e siede esattamente di fronte a dove i battelli salpano per Atene. Ogni pomeriggio vedo dei rifugiati seduti sulle scale della statua guardare in direzione dei battelli. Alcuni salutano gli amici che hanno avuto la fortuna di avere un biglietto per la prossima tappa del viaggio. Altri invece guardano e aspettano, riservando i propri volti a un altro giorno. Volti che un disumano bus di turisti non distinguerà mai dalla folla anonima.

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[Traduzione dall’inglese a cura di Valerio Evangelista]

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