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Paolo Branca: «Quello che non sapete sui gulenisti»

Fetullah Gulen

twitter / arda yavuz

Fetullah Gulen Hocaefendi. (fotograf:arda yavuz 21122006 )

Giorgio Bernardelli - Vatican Insider - pubblicato il 24/07/16

L’islamologo dell’Università cattolica racconta l’altro volto del movimento di Gülen oggi nella bufera in Turchia. Un mondo fatto di iniziative di dialogo, ma anche gesti non banali di tolleranza e solidarietà

In Turchia sono al centro delle epurazioni, dopo che il presidente Erdogan li ha indicati come i principali ispiratori del tentato golpe di una settimana fa. E vengono additati come una sorta di Stato parallelo, cresciuto in questi anni nel Paese. Ma c’è chi dei seguaci di Fetullah Gülen in questi anni ha conosciuto un volto decisamente diverso. È il caso di Paolo Branca – islamista, docente all’Univesità Cattolica e responsabile della sezione per i rapporti con l’islam per l’arcidiocesi di Milano – che da alcuni anni in Italia collabora con le associazioni legate alla galassia gulenista. E che non ci sta a vedere identificato un movimento ampio e complesso solo con i giochi di potere in corso oggi ad Ankara.

Professor Branca, come ha conosciuto il movimento di Fetullah Gülen?

«Devo ammettere che il nome di Fethullah Gülen mi era quasi ignoto fino a pochi anni fa. Lo conoscevo solo come un continuatore dell’opera del grande mistico turco contemporaneo Said Nursi. Essendo però un arabista avevo già abbastanza da fare nel seguire potenziali riformatori e plateali restauratori di un universo complesso e contraddittorio qual è l’islam arabofono. È stata l’esperienza, del tutto casuale, dell’incontro con molti attivisti del movimento Hizmet (che in turco significa Servizio) operanti in Italia sotto varie sigle (Alba, Milad, Tevere…) a farmi conoscere una realtà che mi ha profondamente colpito».

E cioè?

«Donne e uomini, generalmente professionisti o studenti. In Italia costituiscono solo una piccola parte della ridotta comunità turca, poco più di 15mila anime. Pur essendo profondamente credenti e praticanti non hanno cercato di vendermi la loro merce. Hanno, anzi, mostrato interesse e rispetto per il mio modesto ma non occasionale percorso di conoscenza della loro tradizione religiosa. Da subito hanno impostato le nostre relazioni su una base di perfetta parità. Mai una volta – né qui né in Turchia dove sono stato spesso presso le loro istituzioni – mi sono minimamente sentito trattato con ipocrita condiscendenza».

Che tipo di attività ha svolto insieme a loro?

«A Istanbul ci incontravamo a cena in casa di amici, insieme alle famiglie dove riuscivo a comunicare direttamente in inglese coi più giovani, mentre con gli adulti qualcuno faceva da interprete. La sera di un Venerdì Santo mi è stato chiesto di spiegar loro cosa significasse per me, cristiano, quel giorno particolare. Mentre raccontavo la passione e la morte di Gesù, il capofamiglia prese da uno scaffale una Bibbia in turco e mi disse: “Quello che lei sta dicendo è scritto qui”. In nessun Paese arabo niente del genere m’era capitato nei trent’anni precedenti. Proprio in quei giorni era avvenuto l’assassinio del famoso giornalista armeno Hrant Dink. Uno degli ospiti mi confessò, con sincero rammarico: “Avrei voluto dire a un armeno quanto ne sono addolorato… ma ho scoperto di non avere alcun amico armeno”».

Si parla molto in questi giorni anche delle loro scuole. C’è chi le presenta come una rete parallela di indottrinamento…

«Le circa 2000 scuole promosse dal movimento in ogni parte del mondo sono impostate su criteri di eccellenza, senza la minima intenzione di essere delle madrase. “Ce n’è già troppe, se per 200 anni non ne edificheremo più basta così – mi hanno detto -. Il Corano si studia in moschea o a casa, lì facciamo etica”. Non credevo alle mie orecchie. Del resto le molte iniziative promosse e generosamente sostenute da loro anche in Italia si sono sempre ispirate all’apertura verso gli altri, di religioni diverse o anche di nessuna religione. Un bel libro pubblicato da Jaca Book su Giovanni XXIII, amico dei turchi, raccoglie la straordinaria esperienza umana e spirituale del Papa del Concilio sulle rive del Bosforo, iniziativa editoriale ancora una volta sostenuta da queste realtà che oggi sono accusate in patria d’ogni nefandezza».

Erdogan li accusa di essere stati i promotori di un tentato golpe in Turchia.

«Ho abbastanza anni sulle spalle per poter immaginare che qualcuno dei componenti di un gruppo di tale energia abbia anche potuto sconfinare in terreni minati. Non mi sogno lontanamente di presentarli come angeli piovuti dal cielo. So però che il governo di Berlino ha affidato alle loro scuole l’insegnamento del tedesco ai profughi siriani. So che prima di partire per Istanbul alcuni di loro hanno visitato insieme a me la cappella dell’aeroporto dicendomi “se posso, preferisco pregare in una casa di Dio”. So che mentre assistevo mio suocero in un hospice per malati terminali, a pregare con me al suo capezzale in piena notte ho avuto solo uno di loro al mio fianco. E quando mi imbattei in un gruppo di profughi (soprattutto donne e bambini) nel periodo in cui i media neppure ne parlavano, telefonai a uno di loro disperato per avere aiuto: non mi chiese chi fossero, di quale religione o razza, ma solo quanti e dove. Dopo pochi minuti arrivarono 50 pasti caldi. Nessuno mi ha mai chiesto in seguito dettagli o rendiconti».

Qual è il loro atteggiamento nei confronti delle altre religioni?

«Insieme abbiamo fatto uno stupendo viaggio nella città a cavallo fra Europa e Asia: ebrei, cristiani e musulmani insieme, visitando moschee, chiese e il museo ebraico di Galata. Abbiamo preso parte anche alla messa domenicale celebrata da un prete congolese in italiano a pochi passi da Taksim. Eravamo più noi di tutti i pochi fedeli locali presenti e un immancabile the in casa del parroco ci ha dato l’arrivederci. Potrei continuare, ma penso che vada precisata una cosa: qualche anno fa, durante quei viaggi, non mi sembrava di rilevare un abisso fra loro e l’Akp. Anzi, per certi versi mi auguravo che la Turchia potesse fare la differenza anche grazie a un grande partito popolare non laicista ma vicino alla tradizione religiosa locale, com’è stato per i democratici cristiani d’Europa».

E adesso?

«Sono profondamente indignato per quanto sta succedendo. In Turchia una bramosia di potere da tempo connota molte scelte irresponsabili e liberticide di un leader che ha perso ogni credibilità. E anche in Italia il centro gulenista di Modena (che come tutte le altre loro sedi non è né vuol diventare una moschea) proprio la notte del cosiddetto golpe ha subito un attentato incendiario presumibilmente da parte di sostenitori del Sultano. Mi risulta che sia la prima volta in assoluto che in Italia un luogo animato da musulmani venga attaccato non da xenofobi locali ma da correligionari fanatici, nel silenzio assordante dei media».

Nella bufera, dunque, oggi è proprio uno dei volti di quell’islam moderato che tanto si invoca?

«Non mi piace chiamarli moderati: sono credenti convinti e praticanti, ma danno alla loro fede un diverso orientamento che di rado si riscontra altrove. Proprio in questi giorni osservo con orrore l’esaltazione di Erdogan e della sua repressione come una “vera rivoluzione” al posto delle “primavere arabe” da parte dei soliti esponenti dell’islam organizzato ed etichettato che naturalmente mai hanno speso una parola di condanna sulle condizioni disumane con cui vengono trattati i lavoratori stranieri – musulmani compresi – nelle petrolmonarchie del Golfo. Eppure questi musulmani da salotti televisivi hanno una visibilità enorme rispetto agli amici turchi per i quali esprimo il mio inutile, quasi disperato dolore. Ai primi tutti i vantaggi del circo mediatico-politico che non merita ormai nessuna fiducia. Agli altri l’oscurità in cui ama operare qualsiasi cosa che possiamo chiamare Spirito».

QUI L’ARTICOLO ORIGINALE

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